Studiando il pensiero debole

 

Antonella Cuppari


Fino ad una settimana fa non sapevo minimamente cosa fosse il pensiero debole; ho così deciso di informarmi e ho colto l'invito a scoprire di cosa si trattasse in modo da non arrivare impreparati al convegno. Ho letto un piccolo libro scritto da Dario Antiseri "Le ragioni del pensiero debole"; nella prima parte del libro egli spiega sommariamente (proprio come serve a noi) che cosa sia il "pensiero debole" di Vattimo, mentre nella seconda parte del libro, Antiseri fa tutta una serie di critiche sotto forma di domande al pensiero di Vattimo. Fatte queste premesse adesso provo a scrivere quanto ho capito riguardo questo argomento.


Un detenuto, Enzo, ha chiesto: "il pensiero debole è nato adesso o ci sono stati esempi di pensiero debole anche in altri momenti della storia del pensiero? "
Da quanto ho capito il pensiero debole è sorto adesso come conseguenza della crescente complessità del sapere e del mondo e vede i suoi precursori in alcuni filosofi come Nietzsche e Heiddegger.


Cosa è il "Pensiero debole" ?
Si chiama pensiero debole perché si contrappone ad un pensiero forte. Il pensiero forte sarebbe quello della metafisica che attraverso teorizzazioni credeva di poter arrivare a conoscere una verità ultima e assoluta. Il pensiero forte fa riferrimento alla possibilità di conoscere il mondo nella sua totalità, in una storia che segue un percorso lineare in progressione, in un soggetto autocentrato. Ma il mondo si è fatto via via più complesso, le diverse culture sono venute in contatto e il sapere si è fatto più articolato; di fronte a ciò è sempre più improbabile che esista un solo sapere giusto, una sola verità che regge tutti gli altri saperi. Venendo a contatto con altre culture ci si rende conto di quanto esse siano ricche e complesse ed è difficile quindi collocarle in un continuum che va dal primitivo all'evoluto. Il pensiero non può quindi più essere un pensiero forte che ambisce a raggiungere la verità, ma diventa un pensiero debole, cosciente di questo limite e che al massimo può cercare di risalire al momento storico-linguistico in cui siamo venuti a contatto con le cose del mondo. Essere consapevoli della impossibilità di risalire attraverso il pensiero ad una verità ultima non vuol dire cadere nel relativismo, ma significa essere consapevoli di questo dato di fatto e per questo preferire una società pluralistica. E' infatti evidente come molte guerre e molti conflitti siano nati proprio perché ogni parte era convinta di aver ragione, di essere nel giusto, di credere nel vero. Per questo il pensiero debole probabilmente significa anche tolleranza.

Ci sono tutta una serie di critiche che Antinori fa riguardo a questo argomento, ma non credo sia il caso di prenderle in considerazione.

Cosa diavolo può voler dire "La fragilità delle categorie ontologiche"?
Con "categorie ontologiche" si parla di una griglia universale grazie alla quale l'essere umano dovrebbe poter conoscere il mondo; si allude al fatto che l'uomo entra in contatto con il mondo e dà un ordine ai vari elementi che nel mondo incontra attraverso la categorizzazione; noi non siamo in grado di entrare in contatto con le cose del mondo senza in qualche modo categorizzarle. L'uomo crede di conoscere il mondo e cerca, sulla base delle conoscenze che via via acquisisce, di scoprire la verità e l'origine di esso. Dato che il pensiero debole non può pretendere di conoscere la verità ultima (altrimenti sarebbe pensiero forte), allora le stesse categorie non vanno più viste come gli "oggetti reali" del mondo, ma una costruzione che noi ci siamo creata sulla base della nostra esperienza nel mondo. Noi infatti entriamo in contatto con la realtà e la viviamo per mezzo del linguaggio. Credo quindi che con "fragilità delle categorie ontologiche" si faccia riferimento al fatto che le categorie nelle quali l'uomo inscrive la propria conoscenza delle cose non ambiscono alla verità ultima, ma sono semplicemente delle costruzioni, che in quanto tali, possono variare da cultura a cultura.

A cosa dovrebbe servire parlare di queste cose in carcere?
Parlare di queste cose in carcere serve per prima cosa per trasformare questo in un luogo dove è anche possibile fare cultura. A cosa può essere servito l'incontro sui virus con il professor Pasquale Ferrante? Tutti questi convegni danno la possibilità ai detenuti di conoscere e interessarsi attivamente, di interagire con gli altri partecipanti del convegno che, credo, ne sanno più o meno quanto loro. In questo modo i detenuti non diventano le uniche persone che devono imparare qualcosa da qualcuno, ma possono condividere con parte della società il piacere e la gioia di arricchirsi di qualcosa che può fornire loro gli strumenti per vedere se stessi e il mondo nei tanti modi che la nostra cultura ci propone.

Perché mai a un detenuto e a un cittadino che viene in carcere dovrebbero interessare questa fragilità e la responsabilità che ne consegue?
Io credo che venire in carcere e interessarsi alla fragilità delle categorie ontologiche e al pensiero debole sia prima di tutto un modo per vedere il mondo sotto altri punti di vista. Sia un modo per riflettere sulla fragilitò delle verità assolute che ognuno ha dentro di sé, verità che a volte portano a non prendere in considerazione altre possibili scelte. Io penso che questo incontro possa essere utile per decidere di esplorare strade nuove, per vedere nella verità assoluta di qualcun altro qualcosa che ci accomuna. In un mondo così complesso è forse importante mettersi in discussione se non altro perché nessuno può avere la certezza di essere al 100% nel giusto.