Da Nietzsche e Heidegger verso Vattimo

 

Alice Ordanini


Nella premessa al volume "Il pensiero debole" leggiamo che il dibattito filosofico ha oggi almeno un punto di convergenza: non si dà una fondazione ultima, unica, normativa. Il pensiero si trova alla fine della sua avventura metafisica.

Vattimo insiste sul fatto che non è più proponibile una filosofia che pretenda certezze e "fundamenta inconcussa" per le teorie sull'uomo, su Dio, sulla storia, sui valori.
Non è più possibile una filosofia fondazionale perché la crisi dei fondamenti si è spostata dentro l'idea stessa di verità: le evidenze chiare e distinte si sono offuscate.
Vattimo scrive che la filosofia da Aristotele a Kant è "sapere della fondazione, sapere primo".

La filosofia con Aristotele pretendeva di conoscere lo strato primo dell'essere e con Kant i modi universali e fissi del conoscere. Dopo Nietzsche e Heidegger è svanita l'idea della filosofia come sapere fondazionale.

Il mondo del sapere si è fatto così complesso che è inverosimile l'esistenza di un sapere che regga tutti gli altri saperi in maniera unitaria, fondante; c'è una specializzazione delle sfere dell'esistenza ed è ovvio che si impongano delle logiche specifiche nei vari settori della vita. Inoltre i mezzi di comunicazione ci mettono continuamente a contatto con altre culture e noi tutti abbiamo un'esperienza della molteplicità che rende sempre più difficile la riduzione ad un unico fondamento. Oggi non ha più senso tornare a quelle evidenze prime ed indiscutibili perché l'evidenza non è da prendere come segno della verità ma è prodotta da abitudini, pressioni sociali, convenzioni.

Il motivo di maggior peso che rende impossibile una filosofia fondazionale è dato dall'ermeneutica, cioè dalla teoria concernente il rapporto tra linguaggio ed essere. Noi non siamo capaci di un accesso pre-categoriale o trans-categoriale all'essere; esistere significa stare in rapporto ad un mondo; rapporto reso possibile dal fatto che si dispone di un linguaggio. Vattimo afferma che bisogna insistere sulla radicale storicità del linguaggio, in tal modo vediamo che le cose vengono all'essere solo entro orizzonti linguistici, i quali non sono degli a priori eterni ma accadimenti storicamente qualificati.

Heidegger dice che noi esponiamo l'essere al mondo dentro a degli a priori, ma degli a priori storicamente condizionati dalla nostra mortalità. E' vero che io accedo al mondo dentro a delle strutture preliminari che ho appreso, ma non dalla ragione eterna, ma dal linguaggio che mi è stato tramandato, un linguaggio naturale ma anche storico; cioè il linguaggio della mia società che proviene da un'altra. Io accedo all'essere attraverso dei preliminari, delle condizioni di possibilità che non sono le condizioni a priori della ragione strutturata kantiana, ma sono delle condizioni rese possibili e provenienti dalla mia ragione, che ho ereditato, che hanno una provenienza, che si trasformano nel tempo.

Questa è la storia dell'essere!
L'essere non è un oggetto che posso descrivere, mostrare, dire che è fatto così a prescindere dalle coordinate secondo le quali lo leggo; è sempre in relazione ad una provenienza. L'essere è eventuale, accade, è storico…

Heidegger oppone ad un'argomentatività metafisica oggettuale un'argomentatività storico-destinale, dove la parola destino non vuol dire fatalità, ma qualcosa che non è puro arbitrio. Quando parla di destino non parla di una struttura oggettivamente fissata dell'essere, ma di un tra-mandamento. Come nella staffetta, io ricevo un testimone che poi dovrò passare. Dipende da me, se ho corso veloce o lento, se vinco o perdo; dipende quindi da me come va avanti questo tra-mandamento. E' certo però che io sono su una via, la butto, la devio, mi fermo…ma sempre proseguendo un tra-mandamento.
Categorie, concetti, teorie (cioè linguaggio) non sono strutture eterne, a priori fissati per sempre; costituiscono orizzonti linguistici epocalmente qualificati, né stabili, né eterni, entro i quali l'uomo è gettato e da dove legge e interpreta l'essere e vi si rapporta.

Ma trattandosi di a priori temporalizzati è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorso o teoria assoluta e eterna su Dio (o sulla sua non esistenza) sull'uomo, sul senso della storia e sul destino.

L'uomo si trova da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L'uomo si apre al mondo tramite il linguaggio che parla.
L'essere si dà come tra-mandamento di aperture di volta in volta diverse, come sono diverse le generazioni degli uomini.

I pilastri del pensiero debole sono, da una parte, l'idea che l'uomo legge il mondo da dentro orizzonti linguistici che rendono l'evidenza relativa a tali orizzonti (o apparati categorici) e dall'altra l'idea che tali apparati categorici non sono mai fissi ma storici.

Alla luce di tali presupposti si dissolvono i fondamenti certi, l'idea di una conoscenza totale del mondo, quella di un senso unitario della storia, l'idea di una verità certa.

Il pensiero debole è la fine del pensiero metafisico-oggettivistico.
Secondo Vattimo il grido di Nietzsche "Dio è morto" va inteso non come enunciazione metafisica della non esistenza di Dio, quanto piuttosto nel senso della fine di ogni discorso metafisico.
Con il pensiero debole muta l'immagine della razionalità "La razionalità deve depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare dietro la supposta zona d'ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso unico e stabile, cartesiano".
Bisogna cominciare con una perdita, una rinuncia a fondamenti certi. Ma tale rinuncia diventa "l'allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo". Si ha così la possibilità di avvicinarsi ad una serie di messaggi e ascoltarli con un orecchio che si è reso disponibile.

Si può ipotizzare che il pensiero debole sia il presupposto per la costruzione di uno spazio sempre più aperto alle iniziative, alla tolleranza alle interferenze con altre culture.