Sul suicidio in carcere

Angelo Aparo

Rielaborazione da relazione a Garessio 14-03-2006
 

Lavoro in carcere come psicologo. In Italia la legge non prevede la condanna a morte; in carcere, tuttavia, muoiono ogni anno per suicidio una cinquantina di persone, una percentuale molto più alta della media nazionale. Uno Stato che non prevede la pena di morte, ma che d’altra parte mantiene condizioni nelle quali un numero così alto di detenuti si dà la morte, fallisce nel proprio obiettivo e, in un certo senso, opera in direzione opposta a quella che persegue.

A volte i bambini, non sapendo come farsi valere e/o riconoscere, picchiano la testa contro il muro per protestare contro i genitori; la loro fantasia è che farsi del male equivale a scagliare la propria rabbia contro un capitale cui i genitori tengono: lo si rompe per punirli! In carcere, oltre ai suicidi, accade più spesso che un detenuto si procuri tagli su tutto il corpo così da richiedere a volte anche più di cento punti di sutura: lo si fa per chiedere ascolto, ma molto spesso anche solo per “punire” chi non ascolta.

Nelle sue canzoni, Fabrizio De André parla spesso della morte, non solo nel senso del suicidio del Miché o dell’eccidio di Fiume di Sand Creek. In Khorakhané egli parla della morte che gli uomini si somministrano disconoscendo parti di sé, una morte che non è esattamente quella che porta al cimitero, ma piuttosto quella che l’individuo vive quando le parti che lo compongono vengono allontanate le une dalle altre, così da interrompere la loro comunicazione: ecco la Disamistade, sia quando queste diverse voci sono interne all’individuo sia quando si tratta di parti contrapposte della società. Fabrizio De André è stato un campione nel valorizzare tutto quello che generalmente si cerca di occultare, di separare, di escludere. Tutta la sua produzione è una continua ricerca e un invito ad ascoltare l’imperfezione umana, con quelle anomalie e quelle trasgressioni che fanno sì che queste parti vengano invece fuori. Lo fa con l’antologia di Spoon river, lo dichiara con l’ultima Smisurata preghiera.

Oggi a San Vittore abbiamo avuto la consueta riunione del “Gruppo della trasgressione”, un gruppo costituito da detenuti e da studenti universitari che lavora dentro il carcere di Milano su temi che sono stati molto cari a Fabrizio de André e che, in nome di questa affinità di interessi, lo voleva nel ‘98 come suo primo ospite. Purtroppo lui, dopo avere accettato l’invito, ha poi avuto la pessima idea di morire. La conseguenza è che il gruppo lo sente come uno dei suoi padri ispiratori ed è un po’ come se fosse intestato a lui.

I detenuti oggi mi invitavano a ricordarvi che, sebbene in Italia non sia prevista la pena di morte, in fondo molti cittadini la vogliono e la vogliono più i giovani che i cinquantenni. Evidentemente, con le separazioni e i disconoscimenti quotidiani, l’essere umano vuole la morte anche se cerca di superarla. Noi viviamo dentro una cultura (le leggi non le fa solo il legislatore!) con un’apertura limitata verso la complessità e le contraddizioni dell’uomo. In carcere, che è luogo di separazione, c’è scarsa tolleranza verso le parti oscure, c’è poca disponibilità verso quelle parti dell’uomo che, pur essendo oscure, hanno qualcosa da comunicare: una disponibilità limitata perché ascoltare le contraddizioni è una fatica. Tutti i nevrotici che si rispettino sanno bene che è una fatica tollerare i conflitti e per questo cercano di escluderli dalla loro coscienza; lasciare spazio d’espressione alle parti problematiche è un valore, può essere un obiettivo, può costituire un arricchimento, ma tenerne conto complica la vita, obbliga a fare i conti con se stessi.

E allora a cosa serve il carcere? In carcere si cerca di dimenticare le ragioni e le istanze, i conflitti e gli impulsi che hanno indotto le persone a rompere gli argini; e, ovviamente, non parliamo solo di conflitti inconsci, ma anche di quelli legati alle spinte e controspinte sociali. Nel nostro carcere le persone non vengono condannate a morte, ma qualcuna di loro, splendidamente rappresentativa della conflittualità umana, a volte giunge a suicidarsi. E, per ognuno che si suicida, noi, pur non professando la pena di morte, la avalliamo e ci concediamo di dimenticare una parte di noi stessi.

 

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