Quello che non ho |
Ivano Longo | 20-01-2004 |
Ho notato che certe volte sento il bisogno di avere quell’oggetto o quella caratteristica che vedo essere proprietà degli altri. Quello che vediamo diventa spesso quello che desideriamo, provocando in noi emozioni bellissime e allo stesso tempo drammaticamente complicate e a volte crudeli.
Già dalla più tenera età questi “oblò” c’illuminano l’anima, portandoci in mondi nuovi, e da quel momento il nostro cammino ha inizio.
Molte delle cose che vediamo non hanno ancora un nome. I colori, più che le forme, ci fanno desiderare un oggetto, un giocattolo dai colori vivaci. Quando questo ci viene sottratto causa in noi il pianto. Ma il pianto non è solo per il dolore della privazione; piangendo comunichiamo ai nostri genitori che quell’oggetto ci piaceva e chiediamo loro di riconoscerci.
Man mano che cresciamo, ci rendiamo conto che vedere un oggetto e desiderarlo copre altri bisogni, come quello della presenza dei genitori. Col passare del tempo la cosa cambia, ma non di molto nella sostanza, poiché gli atteggiamenti che attuiamo hanno sempre, come obiettivo, qualcosa di cui non siamo del tutto consapevoli.
A volte quello che desidero provoca in me l’invidia
A volte sento l’invidia di altri verso di me, e questa cosa mi fa star male, perché penso a quello che veramente ho o alla mia condizione sanitaria. A questo punto dentro di me si scatena una tempesta, e le foglie vengono strappate dal mio corpo, lasciandomi spoglio delle mie maschere. Queste dolore lo sento gratuito, incomprensibile e questo causa in me rabbia e senso di ingiustizia.
Ma cosa mi succede quando provo invidia? Da principio osservo l’oggetto del desiderio, che nell’età più adulta può essere anche un atteggiamento che inizialmente mi stimola, poi quando mi sono innamorato “dell’oggetto” in questione, il mio sguardo si sposta sulla persona che lo possiede. Allora la guardo, la scruto e mi accorgo che ha due mani come me, un naso, due occhi; ma ha anche qualcos’altro che non riesco a vedere, o forse non voglio. Vedo quest’uomo che sta bene, lo vedo sorridere anche quando non ha nulla da sorridere; ha qualcosa dentro che voglio anch’io, qualcosa che mi fa sentire diverso, più piccolo di lui. E questo sentire non mi piace. Mi fa male vedere qualcuno che sta bene quando io invece sto male. Così inizio a giudicarlo, lo giudico falso, disonesto, lo giudico a tal punto che i miei giudizi col tempo diventano la mia realtà: una realtà che inconsapevolmente ci unisce, ma non ci avvicina; una realtà che ci lega, ma come una sbarra rigida che m’impedisce di toccare l’altro, facendomi sentire che non potrò mai essere come lui.
Poi passata la bufera, mi rendo conto che questo sentimento può diventare un motore per correre incontro al cambiamento in due direzioni: fare di tutto per avere quello che desidero calpestando gli altri o andare verso quello che mi manca con una mia crescita.
Ciò che non ho può diventare una bella sfida che, se vinta, forse non mi farà avere quell’oggetto o non mi permetterà di essere come quella persona, ma mi darà la possibilità di conoscermi come persona, per quello che veramente posso avere od essere, mettendo in conto i miei limiti.
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