| Il crimine e l'urlo(dalle lezioni alla Bicocca, dicembre 2001) |
In alcuni passaggi Winnicott parla del furto del bimbo. Dice che il bimbo nella sua mente, quando ruba, sta rubando ciò che dal suo punto di vista gli appartiene già!
L'uomo rappresenta a sé le cose attraverso immagini o comportamenti che rimandano ad altro. Così come nel sogno qualcosa sta per qualcos'altro, anche nella mente del bimbo rubare qualcosa corrisponde a una richiesta di ciò che per lui è più importante: la madre, il sentirsi presente nella mente della madre.
Il bimbo può rappresentare ciò che manca, ciò che lo opprime, o il suo malessere nel comportamento irrequieto, turbolento, trasgressivo. Rappresenta ciò che gli fa problema attraverso qualcosa che provoca altri problemi.
| Stiamo parlando del sintomo, dunque di qualcosa che deve essere ascoltato e compreso; cioè di una domanda. Un sintomo è la rappresentazione collassata di un problema, di un conflitto fra spinte e controspinte che la persona non riesce a conciliare dentro di sé; un`implosione della capacità di rappresentare. La comunicazione, anziché articolarsi nella realtà grazie agli strumenti e i codici comuni, viene esternata attraverso un grumo di significati. Il risultato è un urlo che chiede di essere decodificato, un urlo in attesa delle parole utili per articolarsi in un discorso. |
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Esiste una continuità tra questi concetti e lo studio del percorso deviante? Cosa lega il furto di un bimbo di otto anni dal borsellino della madre all'omicidio di un benzinaio nel corso di una rapina? Interrogandoci sul furto del bimbo, poniamo delle buone premesse per intendere il senso del crimine più grave.
Il transfert non riguarda solo la relazione tra paziente e analista. Le immagini che costituiscono il bagaglio dell'individuo sono immagini che, quanto più sono problematiche, tanto più pressano il soggetto a darne una rappresentazione, a metterle in scena, servendosi, in maniera più o meno articolata, degli oggetti esterni.
Se un individuo ha interiorizzato un modello di relazione segnato dall'abbandono, le sue future relazioni importanti, in un modo o nell'altro, saranno caratterizzate dal tema dell'abbandono. Ciascuno riproduce nel rapporto col mondo quei modelli di relazione che ha assimilato nel corso dei suoi primi anni. Questa inclinazione è tanto maggiore quanto più le relazioni interiorizzate costituiscono problema. Più una cosa fa problema, più c'è bisogno di risolvere il problema e, di conseguenza, più c'è bisogno di dare una rappresentazione del problema.
Ma potrebbero mancare gli strumenti per farlo, o esserci delle grosse resistenze a farlo. In tal caso, avremo un sintomo, una domanda confusa fra interlocutori che non si conoscono: non è certo facile sapere con quali interlocutori interni stiamo intessendo il nostro discorso.
E allora? Si vuol forse dire che, essendo tutto così difficile, essendo tutto così denso di storia, di nessi, di intrecci, nessuno è colpevole, nessuno è responsabile? Si vuol forse dire che le responsabilità della scelta individuale si perdono nei mille intrecci che la precedono? Dobbiamo forse baciare gli assassini perché sono stati abbandonati dalla mamma da piccoli?
No! Ma non risolve il problema nemmeno rispondere a calci in bocca a chi ruba! Se una persona ha interiorizzato l'immagine di un genitore che ha abbandonato, che ha tradito, che ha deluso, che ha violentato, questa persona avrà una compulsione a mettere in scena la vicenda che lo ha fatto soffrire e i personaggi che ne erano stati gli interpreti.
La coazione a ripetere è una riedizione di ciò che ha traumatizzato. Il criminale adulto si porta a spasso il suo rancore, messo a macerare ben bene già da quando lavorava nell'officina dello zio a otto anni; rispetto al bambino di otto anni lo elargisce al mondo con conseguenze certamente più gravi e traumatiche per il consorzio sociale, ma purtroppo, lo amministra con una quota di libertà interiore non maggiore di quella posseduta da un bambino arrabbiato.
L'obiettivo della Legge non può esaurirsi nel misurare il coefficiente di capacità di intendere e di volere per potere soppesare la quota di responsabilità e, da qui, l'entità della pena; no, l'obiettivo è ricostruire e restituire alla persona la responsabilità senza la quale noi non abbiamo la persona.
FINE DELLE PENE Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo. |
E questo obiettivo è nostro, e lo rimane anche se ci si accorge che la persona oppone resistenza ad acquisire questa famosa responsabilità. La coscienza di sé, delle proprie responsabilità e di quello che si può fare con gli altri non sono solo la migliore piattaforma per costruire, giorno dopo giorno, la propria libertà; sono anche la migliore diga per arginare le vecchie soluzioni cui il nostro delinquente era solito ricorrere.
E come facciamo? Quale sarà "… l'impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini"?
Diventa necessario offrire alternative a quelle soluzioni e le alternative costano parecchio!
Ci indispone che le alternative utili per motivare un ex delinquente a fare il bravo costino di più - di solito - di quelle che bastano a uno che si diverte a giocare a scacchi con un amico al parco e che è completamente indifferente allo champagne e ai nights; e ci si dimentica delle condizioni di cui abbiamo beneficiato e dell'impegno che ci è stato necessario per diventare capaci di giocare.