Impegnandoci, possiamo arrivare alla Malpensa

 

Studente Bicocca 2001

 

Voglio iniziare questo elaborato parlando dei fatti di cronaca inerenti l'incriminazione di alcuni addetti ai bagagli dell'aeroporto di Malpensa.
I fatti: il 23 agosto 2002 i telegiornali riferiscono che trentasette persone fra gli addetti al trasporto dei bagagli interno all'aeroporto sono stati incriminati dalla polizia per avere derubato dei passeggeri aprendo i loro bagagli e sottraendone oggetti di valore. Le accuse sono supportate da molti filmati - la polizia stava riprendendo queste attività da due anni - in cui si vedono questi addetti scassinare, aprire e prendere dalle valigie macchine fotografiche, videocamere, orologi, gioielli e quant'altro.

Trovo questo argomento molto interessante perché lavoro in Malpensa e conosco l'ambiente in cui si sono mossi i ladri.

Lo scandalo è scoppiato in un periodo dell'anno in cui molte persone prendono l'aereo per andare in vacanza, e ciò ha fatto si che il fatto abbia interessato molti spettatori dei telegiornali. È normale infatti immedesimarsi con le vittime che spediscono il proprio bagaglio e lo riprendono senza trovare tutto quello che vi avevano inserito. Giustamente, si arrabbiano. Vedere poi i ladri nel pieno della loro attività, immaginando che la valigia oggetto delle loro attenzioni sia la propria, fa sorgere un desiderio di punizione verso i responsabili di questo crimine.

Mi stupisce tuttavia la forza dello sdegno riportato dai giornalisti, il fatto che sia stato rimarcato più volte che gli oggetti rubati potevano anche essere carichi di valore affettivo per chi ne è stato derubato, che l'attività di rubare nelle valigie era diventata il primo lavoro degli addetti considerato "l'alto guadagno". Tutte osservazioni più che corrette, ma sinceramente non esaustive dell'argomento.

Fermo restando che è un bene che si sia posto un alt a queste attività e che chi è stato vittima di un furto, seppure di valore irrisorio, abbia tutte le ragioni per essere arrabbiatissimo; voglio spostare l'accento su questi ladri cercando di analizzarne le emozioni e le motivazioni da un punto di vista il più possibile scientifico.

La prima cosa, macroscopica, che deve venire alla mente è: perché una persona deve rischiare il posto di lavoro per un bell'oggetto? Rischiereste voi di trovarvi in mezzo a una strada per un braccialetto o poco altro? La risposta suggerita dall'intelligenza è no. Dunque abbiamo a che fare con trentasette sottosviluppati mentali che per coincidenza si trovavano a lavorare gomito a gomito nello stesso reparto di un aeroporto con diecimila lavoratori.
Non mi sembra una risposta statisticamente probabile.

Il modo di pensare dei rei mi sembra dato da un modello ASPETTATIVA X VALORE valido come quelli di chiunque. Mi riferisco al paradigma di John Atkinson sulla motivazione alla riuscita, in base al quale per determinare una condotta convergono oltre alle inclinazioni personali anche delle stime soggettive di utilità e probabilità. I soggetti in questione guadagnavano circa ottocento euro al mese, ossia avevano un basso tenore di vita, con i furti, che credevano senza rischio di essere scoperti, raddoppiavano il loro benessere in modo convenientemente sicuro.

E' verosimile che questo trend abbia preso il via poco alla volta, magari, inizialmente, prendevano solo oggetti fuoriusciti accidentalmente dai bagagli, poi quelli in uno scomparto della valigia con una chiusura lampo senza lucchetto e, vedendo aumentare il guadagno, sono poi passati a scassinare anche i bagagli sigillati.

Una prova di questo percorso di microscelte è che queste situazioni si ripetono ciclicamente a distanza di qualche anno le une dalle altre da parecchio tempo. Le statistiche confermano che prima si comincia a rubare poco, poi l'attività si ingrandisce fino a diventare troppo importante per non essere osservata e quando l'autorità incrimina i responsabili nessuno più guarda nelle valigie per qualche anno, fino a quando i nuovi addetti, nelle stesse condizioni di quelli rimossi per i furti, ricominceranno il ciclo.

Il fenomeno mi sembra interessante perché coinvolge la cosiddetta "gente normale"; nel caso specifico, nessuno con precedenti penali e, statisticamente è quasi impossibile che tutti abbiano avuto storie traumatiche legate alla propria infanzia. Sono persone che forse considerano il furto come un crimine ignobile, ma pensa al proprio 'operato' come un crimine senza vittime.

In questa situazione si capisce bene che i delinquenti non sono marziani senza etica continuamente tentati da oggetti di medio valore. Intendo dire che qualsiasi individuo normale, nella loro situazione, avrebbe avuto una buona probabilità di comportarsi nello stesso modo.
Ideologicamente non li giustifico, anche perché non è questo il tema dell'elaborato, ma se posso fare una considerazione generale a carattere sociale, non mi sembra che ci sia da indignarsi nella maniera veemente dei mass-media chiedendo licenziamenti in tronco che poi si trasformerebbero in "bolli di infamia" sui libretti di lavoro.
Credo che questo corso mi abbia dato gli strumenti per analizzare la questione da un diverso punto di vista: prima il mio atteggiamento era più modellato su una teoria ingenua.
Punire? Questa può anche essere la voglia di un singolo, o di tutti i singoli che sono vittime, ma come comunità, come Stato, non sembra utile mantenere un atteggiamento punitivo.

In questa seconda parte della tesina affronterò l'argomento di comportamenti devianti ben più tragici di quelli sopra citati.

In un certo senso quanto esposto finora mi serve per dare un'idea di quale possa essere la voglia di punizione quando si ascolta la storia di un crimine. Se già si nutre un forte sentimento di punizione vedendo un operaio che fruga in un bagaglio personale, immaginiamo cosa si può provare per chi si macchia di crimini atroci come lo stupro e la pedofilia.

In questo caso non ci si può aspettare che la maggior parte degli individui agisca come dei pedofili se messi in una determinata situazione. Né si può parlare di azioni che hanno un fine di lucro (cosa che non vale per chi organizza i così detti "viaggi del sesso" che contano un fatturato di circa 5 miliardi di dollari l'anno).

I pedofili appaiono veramente come esseri non-umani che non hanno nulla in comune con noi. I volti di Luigi Chiatti o dell'elettricista milanese Alain Filippo Berruti, poco più che trentenni, vengono associati a quelli di mostri. Quello che alcune organizzazioni (tra cui Terre des Hommes) impegnate nella difesa dei minori sta rilevando in questi ultimi anni è poi il fenomeno relativamente recente che vede clienti del mercato del turismo sessuale le donne. In alcuni casi le conseguenze sono persino peggiori di quelle provocate dagli uomini perché le vittime sono costrette ad assumere ormoni per garantire elevate prestazioni sessuali, con conseguenze fisiche disastrose.

Eppure, se scartiamo l'ipotesi che queste persone vengano da un altro pianeta, dobbiamo farcene carico come un'espressione dell'umanità. Dobbiamo, anche sforzandoci, reprimere i sentimenti punitivi che queste ignobili azioni ci suscitano. Dobbiamo chiederci se un uomo che stupra e tortura un bambino sia in grado di intendere e di volere, e ci accorgiamo che non ci può essere altra risposta che no.
Per i pedofili/e dovrebbe attuarsi un trattamento terapeutico, sempre se si considera la questione da questo punto di vista.