Tramonto di maggio

Mariella Tirelli

07-03-2005  

 

C'era un ragazzo che non amava i Beatles e i Rolling Stones: voci e musiche indistinte che uscivano dai bar, dalle finestre aperte, da una radio che raramente poteva fermarsi ad ascoltare.

Si era seduto nel primo banco della fila di mezzo il primo giorno e lì era rimasto per cinque anni, in una classe di tredici alunni, dove ognuno sceglieva il posto secondo l'estro e la convenienza del giorno. Silenzioso, stava in un suo mondo a parte che imparammo a decifrare lentamente. Solo qualche volta si univa a noi per un giro in piazza all'uscita della scuola. Non partecipava alle nostre riunioni pomeridiane, raramente ci raggiungeva prima di cena davanti al bar. I suoi risultati scolastici non erano brillanti, anche se studiava tutto e più di tutti. Aveva sempre dieci in condotta. Qualche volta toglieva dalla tasca uno di quegli oggetti che, a scomparsa, contengono un coltellino, una forbice, un cavatappi e non so che altro; se lo teneva fra le mani, lo posava sul banco, ci "giocava".

Quando il terzo anno ci ritrovammo in nove, gli fu più difficile sottrarsi a un gruppo di ragazzi che erano più che compagni di scuola e nel gruppo contavano anche lui. Non aveva mai accettato di farsi aiutare, di copiare un compito. Un giorno di fronte ad un’altra insufficienza in latino, gli chiesi perché: praticare il mutuo soccorso era un modo per essere amici. “Mia madre non vuole, dice che devo farcela da solo e non domandare niente”.

Nessuno ebbe il coraggio di replicare. Poco a poco riuscì tuttavia a rompere l'isolamento e, superando la diffidenza che non gli apparteneva, a partecipare, a chiedere, a ridere. Disegnava bene e mi aiutava a rendere accettabili i miei sgorbi.

C'era un professore che si divertiva a metterlo in imbarazzo. Lo vedevamo stringere i denti, ma il giorno in cui ci fu una specie di rivolta contro l'ennesimo, gratuito, attacco, la sua reazione fu di paura: paura che il nostro intervento potesse danneggiarlo, che la notizia giungesse ai suoi genitori.

Smettemmo di preoccuparci delle sue ritrosie, dei discorsi stravaganti che rivelavano un mondo surreale. Qualche pomeriggio eravamo andati a suonare il campanello, ma il più delle volte si era affacciata sua madre: “Giorgio non può venire, deve studiare”. Ci rendemmo presto conto dell'umiliazione che il nostro gesto poteva suscitare in lui e imparammo ad aspettarlo, senza fare domande quando non ci raggiungeva. Nessuno entrò mai in casa sua.

Non era con noi alla cena di classe prima dell'esame di maturità. Doveva studiare. Credo che abbia patito più di tutti la paura del vuoto, la crisi di abbandono che coincise con la fine del liceo, di quegli anni irripetibili che avevano colmato, per tutti, tante mancanze.

Cominciata l'Università, ognuno ebbe i suoi tempi, ma quando si poteva e per chi poteva, restava come punto di riferimento il bar, prima di cena.

Un pomeriggio c'eravamo tutti, arrivò anche lui, in bicicletta. Parlavamo degli esami e delle cose di cui si parla a vent'anni. Lui era silenzioso, assente. Era un tramonto di maggio nella nostra piazza, le pietre del Duomo erano rosse, ancora qualche manina nell'aria, il cielo bello come è bello, a primavera, soltanto il cielo sotto il quale sei cresciuto. Senza dirlo, ci sentivamo padroni del mondo. Decidemmo di andare insieme a mangiare una pizza. Quando l'orologio del castello segnò le otto meno cinque, Giorgio si alzò, come aveva sempre fatto.

I nostri genitori ci aspettavano preoccupati, suo padre aveva telefonato a tutti: il nostro compagno non era tornato. Dopo tre giorni trovarono la sua bicicletta sull'argine del Po, ma quel che restava di lui fu avvistato soltanto un mese dopo, più a valle, verso Rovigo. A far veglia al suo corpo decomposto e gonfio c'erano mille papaveri rossi. L'autopsia rivelò una ferita da coltello alla gola. Un piccolo coltello, ma sufficiente a impedirgli di ribellarsi all'acqua.

Lo immagino ancora superare l'incrocio di casa con uno scatto, alzarsi sul sellino e pedalare veloce verso lo "stradone dei pioppi", percorrere ostinato, la testa china, i venti chilometri che lo separavano dal fiume. Non aveva mai baciato una ragazza.

 

 

Preghiera in gennaio Altri testi