Il trucco del posacenere |
Gaspare Bergantino |
25-09-2012 |
Nel 1987, mio padre moriva di s.l.a. (sclerosi laterale amiotrofica), una malattia implacabile e degenerativa, che lo ha consumato fisicamente in 8 mesi. All'epoca, io e mio fratello Curzio avevamo rispettivamente 8 e 13 anni. Abbiamo cercato di reagire al dolore come meglio potevamo: io rimanevo vicino a mia madre cercando di aiutarla nelle piccole faccende quotidiane, Curzio sfogava la sua frustrazione ricorrendo all'uso della violenza. Il quartiere Comasina in quegli anni era una polveriera di cattiveria e prepotenza, dove un ragazzino pieno di rabbia aveva un’eccellente palestra per allenarsi allo scontro fisico.
Quei giorno mia madre aveva deciso di portare me e Curzio fuori Milano per darci la possibilità di non pensare a nostro padre. Fu così che, essendo mia madre Brianzola, andammo a trovare le zie di Concorezzo. Arrivati in paese, la prima cosa che notai fu ovviamente il bar sala giochi. Entrati in casa della zia Giuseppina e compiuto il rituale dei saluti, cominciai a esasperare mia madre con la solita richiesta: due o tre "millini" per andare in sala giochi. Una volta scroccato qualche soldo a mia madre (cosa che fra l'altro ero capace di fare magnificamente), diedi un bacio sulla fronte di mia zia e me ne uscii per raggiungere la mia meta. Prima che ciò avvenisse mio fratello mi chiamò: "Gapi, ti raccomando, se ti succede qualcosa, dimmelo"
"Non ti preoccupare". Mentre mi incamminavo verso il bar, mi accorsi del cielo grigio e nuvoloso, pensai che un violento temporale era in arrivo, ma non pensai che di lì a poco sarei stato investito dalla tempesta.
Arrivato a destinazione, entrai nel bar e vidi 3 videogiochi davvero belli. Cambiai un millino alla cassa e mi tuffai sul primo: super Mario Bross. Essendo bravissimo, con un gettone andavo avanti minimo 20 o 30 minuti e questo ovviamente non andava a genio agli altri ragazzini che aspettavano il loro turno.
In quell'occasione cominciarono a rompermi le palle tre ragazzi del posto di età compresa tra i 15 e 17 anni. Cercai di evitarli, continuando a giocare, senza dare peso ai loro sfottò. Il problema venne fuori quando i 3 brutti ceffi staccarono la spina spegnendo lo schermo. Ripensandoci ora, forse avrei fatto meglio a sedermi, farli divertire e aspettare nuovamente il mio turno. Ma sentivo che tutto ciò non era giusto. Così riattaccai la spina e cominciai un’altra partita. Ovviamente questa mossa fu l’inizio del disastro. Il più grande dei tre mi spintonò facendomi cadere per terra e, intimandomi di andarmene, mi tirò una pedata sul sedere.
Mentre tornavo verso casa un senso di impotenza mi tormentava. Cercavo di non pensarci, saltellando dentro una pozzanghera. Mi fermai guardando ancora il cielo, che ora, con una pioggerella delicata, sembrava volesse dirmi qualcosa, forse mi consigliava di stare in silenzio, di tenermi tutto dentro, perché qualcosa di spiacevole poteva accadere. Il dilemma era continuo: "cosa faccio?, glielo dico o non glielo dico?" Ero cosciente de! fatto che qualcuno poteva farsi male. Ma alla fine, la voglia di rivalsa nei confronti della prepotenza trionfò. Mi precipitai nella piccola corte, dove abitava mia zia Giuseppina, su una panchina vidi mio fratello, lo fissai per qualche secondo e capii che non era il momento di aizzarlo, ma lui stesso mi chiamò: "Gapi, cos'è successo?" Risposi timidamente, ma dentro ero rabbioso e incazzato col mondo: "niente, non è successo niente". Si avvicinò e mi prese per le spalle. Cominciai a piangere. "Perchè piangi, ti manca il papà?" "Sì, ma piango anche perchè al bar del paese, tre ragazzi più grandi di me mi hanno picchiato".
In un istante eravamo sulla via principale, già in direzione del bar. La cadenza del passo era sicura e decisa, con il braccio sinistro circondava le mie spalle. Cercavo di farlo desistere, ma fu inutile. Aveva il viso bianco come la morte, le labbra serrate e gli occhi, fissi, sembravano guardare il vuoto. Fummo subito davanti al bar. Oltre una delle vetrate potevamo vedere il trio che se la godeva sui giochi elettronici, inconsapevoli del pericolo. Tutto cambiò quando mio fratello lanciò un urlo: "ehi voi tre, infami". Qualcuno si accorse ma fece orecchio da mercante. Cambiò stratagemma; si avvicinò alla vetrina e, piano piano bussò una, due, tre volte. I tre ragazzi alzarono la testa e lo guardarono, all'inizio, incuriositi. Li indicò uno per uno e li invitò ad uscire.
Sembrava uno di quei film muti, dove i gesti sono essenziali per capire la trama. Presero a parlottare fra loro, si capiva che erano un po’ sgomenti: non è da tutti invitare alla lotta tre persone insieme, soprattutto se si è di qualche anno più piccoli. Mi invitarono ad entrare: "ma quello chi è'?". "Mio fratello". "E cosa vuole? digli che non cerchiamo grane". Troppo tardi, mio fratello era già dentro diretto sul primo: due pugni sul viso, steso. Una testata in bocca al secondo, idem. Una breve collutazione col terzo, che si ritrovò per terra a proteggersi dai calci di Curzio.
Sembrava tutto semplice e rapido, ma il danno ancora doveva arrivare. Il barisa, un omaccione di quasi un metro e novanta, si precipitò su mio fratello a mani aperte, cominciando a colpire. Mio fratello, essendo molto più piccolo di corporatura, subì l'iniziativa dell'avversario, incapace di reagire. Gli urlai con tutto il fiato di non mollare. Accennò una reazione con una serie di pugni che ebbero l'effetto contrario. Per tutta risposta ricevette un poderoso destro sulla testa, che lo fece volare fra i tavolini, dove alcuni vecchietti si contendevano una mano di scopa. Il cuore si fermò, anzi, direi che il tempo si fermò. Pochi interminabili attimi. Cominciai a piangere, insultando il barista. Pensavo che quel pugno sulla testa, avesse ammazzato mio fratello. Speravo in un miracolo, pregai che qualcosa o qualcuno potesse aiutarci. Il barista avanzò verso i vecchietti, chiedendo cosa fosse successo, quando dalle sedie vidi mio fratello riemergere e, con uno scatto deciso, portarsi sul fianco del barista. Gli saltò addosso, brandendo un grosso portacenere nella mano sinistra. E così, vidi mio fratello volare come l'angelo vendicatore e poi scendere in picchiata, come uno sparviero, sul povero rnalcapitato.
Con l'avambraccio destro gli cinse il collo e, stringendogli con le gambe il busto, cominciò a vibrare botte di portacenere sulla sua testa. Sembrava di vedere un cowboy cavalcare un toro perché il barista faceva di tutto per scrollarselo di dosso. Urlava:"aiutatemi, cheschì l'è adrè a massam." Ovviamente nessuno intervenne; soltando quando intravidi degli schizzi di sangue, implorai mio fratello di finirla. Lui lasciò la sua preda arretrando di due metri e afferrandomi la mano. Mostrando a tutti i presenti la sua arma, ringhiò di non muoversi, altrimenti avrebbe ricominciato. Qualcuno accennò un timido: "ma va là delinquente", altri prestavano i primi soccorsi al poveraccio, chiamando la moglie.
Uscimmo indisturbati dal bar, il temporale era scoppiato furibondo. Cercai di farlo notare a mio fratello, ma lui di colpo si fermò e mi afferrò per le spalle. Mi guardava fisso mentre il diluvio cadeva forte sopra di noi:"Gapi, hai visto cosa ho fatto?"
"Certo" balbettai.
"La prossima volta che qualcuno dentro a un bar ti rompe i coglioni, guardati in giro, cerca un tavolino, prendi uno di questi, vedi?". Aveva ancora in mano il portacenere sporco di sangue. Lo ascoltavo impietrito, volevo dirgli di metterci al riparo ma non lo feci. Continuai ad ascoltare.
"Gapi, mi senti? la prossima volta prendi un portacenere e dallo in testa a chi ti fa le prepotenze, capito? La prossima volta usa il trucco del portacenere".