Omero, l'onore e gli "uomini d'onore" |
Alessandro Crisafulli |
30-05-2012 |
È difficile conciliare la coscienza dei nostri limiti con la spinta irrefrenabile che ci induce a proiettarci oltre la morte e persino a intenderla, a volte, come uno strumento per raggiungere l’immortalità.
Omero, nell’Iliade, racconta della guerra di Troia, mettendo in rilievo l’intrepido comportamento dei combattenti. Gli eroi omerici sono rimasti nella leggenda perché avevano con la morte un rapporto diverso dal nostro: per loro non rappresentava il limite supremo, ma l’opportunità di “farla in barba al tempo”.
Oggi viene da chiedersi come facessero a tollerare la paura della morte, la paura di perdere il proprio corpo, i famigliari, il potere, il denaro, il sesso, il cibo… ma soprattutto, come potessero tollerare di procedere verso una meta ignota.
Per Achille ed Ettore, tutto ciò era possibile perché alla base del loro agire vi era un codice d’onore che valeva di più della stessa vita. La sua violazione corrispondeva a una morte più grave di quella fisica: la morte civile derivante dal tradimento del patto sociale, una morte che svuota il traditore di dignità e lo trasforma in un involucro senza identità. Facendo il loro dovere, onorando le aspettative degli altri e le proprie, gli eroi riempivano di significati profondi l’esistenza e, contemporaneamente, forgiavano la loro identità, consegnando il loro nome ai posteri e conquistando così l’eternità.
Se pensiamo agli ambiti in cui il termine “onore” viene oggi utilizzato, balza agli occhi l’uso improprio che ne viene fatto: i parlamentari vengono chiamati “onorevoli”… fino a pochi decenni fa, il codice penale prevedeva il “delitto d’onore”… le organizzazioni criminali definiscono i propri membri come “uomini d’onore”… Cose da fare rivoltare Omero nella tomba!
A differenza degli eroi omerici, il ballerino non si preoccupa del valore delle sue azioni: il suo unico obiettivo è quello di rimandare il più a lungo possibile la sua “morte”, ignorando il danno arrecato al pubblico, al regista, agli altri attori. Alimentando solo il suo ego e divenutone ormai vittima, non si accorge che il suo comportamento lo allontana sempre più dalla relazione con gli altri e lo isola in una zona d’ombra dalla quale solo con immensa fatica si può riemergere.
Anch’io, come il ballerino, ho vissuto un periodo in cui il mio cigno, ossia la mia parte narcisistica, ha preso il sopravvento su di me. Pur di essere riconosciuto, ho superato tutti i limiti che ho trovato lungo la strada, ricercando invano una collocazione nel mondo.
Oggi so, grazie anche ad alcune persone che ho incontrato nel mio cammino carcerario, perchè non trovavo il mio ruolo: correvo avanti senza identità, sperando di ottenerla in premio ad ogni violazione. Ma era come se avessi voluto costruire una casa senza averne prima posto le fondamenta. Non avendo avuto una guida, mi sono presentato alla società senza alcun progetto, senza un percorso da seguire.
In queste condizioni mi è stato facile perdermi nell’illusione che potessi essere riconosciuto con l’arroganza che, come un fiume che esonda, si è trasformata poi in delirio di onnipotenza, lasciandosi dietro solo dolore e distruzione.
Quando si vive senza rispettare il patto sociale, non c’è spazio per l’evoluzione, poiché essa non può prescindere dalle relazioni interpersonali. È attraverso il confronto quotidiano che possono essere colmate le proprie lacune, si possono trovare nuovi alleati, costruire insieme dei progetti, riempire l’esistenza di contenuti.