Insonnia innocente |
Daniele Marini |
Foto di Carla Zaffaroni |
L’insonnia non mi dava pace.
Come tutte le notti aspettavo l’alba sprofondato nella mia poltrona a dondolo, con le braccia stanche poggiate sul bracciolo, anche il cigolio che un tempo rompeva il silenzio non c’era più, il falegname al quale l’avevo affidata quando gli scricchiolii erano diventati insopportabili, aveva fatto un buon lavoro, anche i feltri che aveva applicato alla base l’avevano spersonalizzata e reso silenziosamente ovattato il suo tran- tran, come il silenzio di quella mattina d’inverno
L’apatia che accompagnava le mie giornate di li a poco avrebbe ricevuto una scossa, dovevo soltanto aspettare che la vita si svegliasse anche nell’appartamento adiacente.
All’architetto, progettista di quella casa, avevo augurato più volte che potesse morire schiacciato dal crollo di uno dei suoi progetti; l’appartamento adiacente lo era in tutti i suoi vani, compresa la camera da letto, con la vicina di casa non mi potevo permettere nessun segreto e lei con me, ma quella mattina avrei benedetto la sua incompetenza.
Anche quella mattina la Cesira si alzò rumorosamente, la sua mole
piuttosto ingombrante, gli oggetti che spesso urtava mi dicevano
esattamente dove fosse, il suo incedere mi investiva come traccianti di una mitragliera: clap-toc, clap-toc, clap-toc, ogni passo lo stesso clap-toc. Il clap era il fastidio della ciabatta che batteva sul calcagno, il toc quando sbatteva sul pavimento.
Doveva essere indurito, anche dal tempo, il cuoio di quelle maledette ciabatte, il fastidio era snervante, quando arrivava all’irritazione mi faceva fantasticare di potergliele sbattere su quel testone di capelli grigi, fino ad ammorbidirle.
Quella mattina però, mi sentivo stranamente tranquillo, aspettavo con pazienza il suo schiamazzare impotente da vecchia gallina ferita. Era passata in cucina, anche lì i rumori erano altrettanto fastidiosi, quel toccarsi di pentole e coperchi, il rubinetto perennemente aperto, ante che sbattevano, sedie urtate che palle!
Clap-toc, clap-toc, lo stesso irritante fastidio, stava andando in bagno, il rubinetto della vasca da bagno si doveva imperlare di condensa per quanto stava aperto; sembrava dovesse riempire vasche di raccolta in attesa di una ormai prossima siccità. Non era così, doveva soltanto preparare il bagnetto per la sua gatta, la sua adorata Petunia, o forse era per tutte e due? Forse il bagno lo facevano insieme?
Quella gatta, già l’odiavo prima di conoscerne il nome, odiavo i gatti a causa di una toxoplasmosi che da piccolo mi aveva perseguitato per parecchio tempo, provocandomi diversi debilitanti disturbi, febbriciattole, eczemi, pruriti, tanto che nel rione si sparse la voce che fossi di salute cagionevole.
“Un gatto!” – aveva sentenziato il medico, “La colpa è di qualche gatto!”
Riguardati!, stai attento!, non giocare in mezzo alla strada, nella terra, ci potrebbe essere orina di gatto! Non ti sporcare! Prima le raccomandazioni di mia madre, poi i rimproveri ogni volta che rincasavo dopo i giochi con mani sporche e ginocchia sbucciate.- odiavo i gatti!-
Il silenzio del rubinetto mi distolse dai miei pensieri, la vasca doveva essere colma, mi preparavo a godermi i prossimi eventi sprofondato nella mia poltrona.
Il bagnetto era pronto, i richiami accorati: Petunia … Petunia … micio - micio micio-micio, di li a poco l’avrebbe trovata ma il bagnetto non glielo avrebbe fatto, né quella mattina, né mai!
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