Editoriale sulla legge. 354 del 26 luglio 1975

Dott. Emilio Di Somma

02-12-2005 Da Giustizia.it
30 anni fa entrava in vigore la legge 354/75, che ha segnato la svolta del sistema penitenziario italiano. A questa riforma, che ha introdotto nuove Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, è dedicato l'editoriale scritto dal vice capo del DAP, Emilio Di Somma, e pubblicato sull'ultimo numero del periodico dell'Amministrazione Penitenziaria Le due città.

 

Per ventisette anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la “vita penitenziaria” è stata governata dal Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con R.D. del 18 giugno 1931. Un regolamento ispirato ad una filosofia di applicazione della pena che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per “favorire l’educazione ed il riconoscimento dell’errore e per determinare nel reo, attraverso il ravvedimento, un miglioramento personale”.

E’ di tutta evidenza, quindi, che l’affermazione costituzionale del principio di umanizzazione della pena faticò molto ad attecchire in un contesto normativo in cui ancora avevano un valore preminente i principi di segregazione, separazione dalla società libera, violenza quantomeno nel senso di disposizioni che “violavano” le più elementari regole del rispetto della dignità della persona, centralizzazione burocratica dell’amministrazione penitenziaria. Si spiega allora perché il cammino verso l’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354 sia stato lungo, sofferto e contrastato e perché soltanto agli inizi degli anni ’70 cominciano a farsi strada disegni di legge che muovono nella direzione di un vero cambiamento di rotta.

Con la riforma del 1975 muta radicalmente la filosofia dell’esecuzione della pena e si afferma un’impostazione che ricalca quella delle “Regole minime per il trattamento dei detenuti” approvate nel gennaio del 1973 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e revisionate nel febbraio del 1987, con il titolo di “Regole penitenziarie europee”. L’operazione ideologica che viene compiuta consiste essenzialmente nel porre al centro di tutto l’impianto normativo l’uomo detenuto e non più, come accadeva nel Regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria.

Vengono, quindi, posti in rilievo i valori dell’umanità e della dignità della persona, quelli dell’assoluta imparzialità e della parità delle condizioni di vita, nasce il principio della individualizzazione del trattamento che deve rispondere ai bisogni della personalità di ciascun soggetto, trattamento che costituisce un vero e proprio diritto per il detenuto, come aspetto del più generale diritto alla rieducazione cui corrisponde un obbligo di fare per l’amministrazione penitenziaria. E potrei proseguire elencando le scelte di civiltà contenute in questa bella legge che hanno dato concretezza ai principi costituzionali e che hanno elevato di molto la qualità e la dignità del difficile lavoro di tutto il personale impegnato nella realizzazione di questo affascinante progetto e di questa avvincente scommessa.

La mia personale esperienza professionale coincide pienamente con i trent’anni di vita della riforma penitenziaria e come fresca e attuale è la legge freschi e vitali sono l’impegno e l’entusiasmo che tutto il personale pone nella complessa impresa di concretizzazione dei principi in essa contenuti.

Di questa legge si potrà dire che è fallita quando, realizzata in ogni sua parte, risulterà aver dato esiti negativi. Ma la legge del ’75 non è stata ad oggi compiutamente realizzata per difficoltà oggettive, vuoi per complessiva inadeguatezza vuoi per l’incidenza di fenomeni contingenti o endemici, sicuramente gravi, che hanno a volte indotto ad assecondare i timori di una opinione pubblica non correttamente informata.

L’oscillare dell’indeciso pendolo tra esigenze di sicurezza e esigenze di trattamento, le difficoltà - o la nostra incapacità - di trovare un possibile punto di equilibrio tra la giusta necessità di punire e la utile risocializzazione, tra la certezza della pena e la sua flessibilità in funzione della possibile evoluzione della personalità di chi ha infranto le regole del vivere civile, dimostrano che vi è una quantità enorme di lavoro ancora da svolgere. E però in questo gravoso impegno ci deve sostenere la profonda consapevolezza che ci muoviamo, lentamente, su di una base solida, civile e giusta, che dobbiamo lavorare con convinzione, con professionalità crescente e con passione, che il cammino è sicuramente ancora lungo ma che senza alcun dubbio vale la pena di percorrerlo tutto.

E’ evidente che tre decenni di esperienza, di errori e di successi, possono e debbono servire per migliorare ciò che c’è da migliorare, eliminare ciò che va eliminato, introdurre ciò che agevola il perseguimento degli obiettivi che devono rimanere quelli sanciti in Costituzione e richiamati nella legge.

Ciò che sicuramente non si deve fare, perché sarebbe un vero delitto, è trasformare il carcere della speranza, in cui questo Paese ha creduto e crede, nel carcere dell’illusione!




Emilio Di Somma
Vice capo Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria

2 dicembre 2005