Incontro col Prof. Adolfo Ceretti

Rossella e Giovanni

Sulla Mediazione ---- 11-06-2005

Aparo descrive brevemente le attività del gruppo al prof. Ceretti parlando dell’importanza del concetto di “Gestazione reciproca” nel rapporto tra detenuti e studenti. Fa poi un accenno ad alcuni convegni e incontri culturali come le lezioni su Ulisse o su Munch e Rembrant.

Riguardo al convegno ricorda i temi di discussione: la violazione della norma e la risposta a questa deviazione, la concezione della pena oggi e nelle diverse civiltà.

Ceretti: (racconta un’esperienza che ha segnato un punto di svolta nella sua carriera).

Dal 1986 con l’introduzione della legge Gozzini si sono presentati molti detenuti specie i cosiddetti “terroristi rossi” richiedendo le misure alternative. Nel 1990, uno di questi, processato per l’omicidio di un poliziotto, ha scritto una lettera di scuse alla moglie della vittima e non avendo ricevuto una risposta si è arrabbiato.

A me ha molto colpito questa reazione e ho pensato a come doveva essersi sentita quella moglie nel ricevere e leggere quella lettera, ho pensato a chi avrebbe potuto aiutarla, stando con lei in quei momenti. Insomma ho iniziato a pensare alla problematica delle vittime.

Le persone che fanno il mio lavoro si trovano sul confine, al margine tra libertà e detenzione ed è naturale pensare a modelli di risposta ai reati che tengano conto del rapporto tra le vittime e la giustizia (da cui sono escluse dopo il giudizio) e con il deviante, in modo che entrambe le parti abbiano la possibilità di lavorare costruttivamente sulle conseguenze del gesto deviante. La mediazione vuole costruire uno spazio in cui le due parti possano co-costruire e agire sulla distruttività del gesto.

La giustizia riparativa (diversa ma non opposta a quella risarcitiva) propone dei programmi in cui tutte le persone che sono interessate possono incontrarsi alla presenza di un mediatore e accedere spontaneamente ad un programma riparativo sia nei confronti della vittima che della società.

Armando: Nei reati senza vittime è più difficile pensare di aver fatto male a qualcuno. Inoltre, spesso il deviante non si sente appartenente alla società, ma posseduto da essa e con il gesto deviante cerca di possederla a sua volta. In questa ottica, se cioè il reato viene compiuto come una compensazione, si ha difficoltà a riconoscere le vere e profonde motivazioni del reato e la parte distruttiva di sé (che è pur importantissima) quindi si fa fatica ad entrare nel meccanismo della mediazione riparativa.

Marcello: Il senso di appartenenza è sviluppato dal gruppo attraverso una mediazione con la società.

Ceretti: Il gesto che viene concordato in sede di mediazione spesso non ha nulla a che vedere con il risarcimento materiale, ma ha un significato importante per la vittima che in questo modo ha la sensazione che il deviante abbia capito la gravità del suo gesto. In questo senso diventa un gesto riparativo.

Walter: Mi sembra che manchi un pezzo. Io sono cosciente che senza l’arresto avrei continuato con le mie rapine e in questo senso credo che il carcere non sia inutile, ma prima di essere nel gruppo non ho mai pensato di appartenere ad un gruppo, né a pensare alle vittime.

Dietro a questo c’è però un lavoro psicologico da fare perché altrimenti la riparazione mi sembra solo un bel quadro. Bisogna aumentare anche la conoscenza perché se si pensa di poter trovare soddisfazione solo in cose come lo champagne o la cocaina si è limitati in partenza.

Enzo: Prima di poter riconoscere la parte offesa devo poter essere in grado di riconoscere come equa la pena che mi ha inflitto lo stato. Non posso riconoscere la società che mi ha dato una pena che per me costituisce un’ingiustizia. Quali strumenti posso usare per evolvermi se sento di aver subito un’ingiustizia?

Nello: La sproporzione della condanna inoltre non ti consente l’incontro con le vittime.

Giovanni: Ci siamo chiesti cosa fornisce il sistema penale al condannato.

La mediazione mi sembra un modo più personale ed individuale rispetto all’idea di una società che chiede al detenuto di uniformarsi ad un canone comune.

Vittima e Detenuto sono accomunati da due attese, quella del giudizio per la vittima e quella della fine della pena per il detenuto.

Domenico: Da ragazzo non riuscivo a spiegare a chi me lo chiedeva il motivo, la paura e la rabbia per cui i miei reati erano via via più violenti. Se ci fosse una mediazione penso che potrebbe aiutare anche me a capire il motivo che mi fa regredire invece che progredire.

Davide: Tornando alle origini del reato e delle ingiustizie si scopre che tutti sono vittime. La giustizia riparativa allora è riparativa verso chi e che cosa?

Prof.ssa Tirelli: La perdita del sentimento di appartenenza accomuna il reo e la vittima, che non sentendosi protetta dallo Stato non se ne sente parte. Riconoscere la vittima anche fuori da reati come l’omicidio è importante e per questo occorre un momento nella mediazione in cui si segnali al reo la gravità del reato commesso. Solo dopo si può passare al problema della eventuale punizione e tipo di pena. Bisogna distinguere tra bene violato e bene giuridico.

Cristian: Come posso avere fiducia nella legge, nella società e autostima se quello che faccio per essere in grado di tornare alla società non viene assolutamente riconosciuto?

Aparo: la mediazione ha come obiettivo un riconoscimento reciproco. Questo presuppone che le persone abbiano capacità e voglia di rispondere del proprio operato e che esistano le condizioni farlo.

Alessandra: Nella mia esperienza di figlia di un ex detenuto, ricordo che durante il processo mi sono sentita invisibile. Non mi sentivo riconosciuta o appartenente né alla società né al reato ed ho vissuto un senso di abbandono. L’esperienza riparativa, secondo me, deve tenere conto anche degli effetti sulla famiglia dei protagonisti.

Ceretti: Come dicevo prima esistono le influenze negative sui parenti del reo. Chi si prende in carico sentimenti come l’abbandono, l’amarezza?

Fra le (forse) 500 mediazioni che ho fatto, recentemente ho lavorato nel comune di Concorezzo in cui 12 ragazzi hanno per mesi abusato sessualmente di una coetanea. Oltre che con i diretti attori e le tredici famiglie coinvolte direttamente mi sto incontrando anche con 60 famiglie di tutto il paese. Ora c’è un clima per cui i genitori hanno paura di far uscire i propri figli di casa. Il reato è “trasbordato” in una incontenibile paura della contaminazione (diffusione del comportamento) nella piccola città. Con un lavoro faticoso (con più di 120 persone) spero di riuscire a creare delle reti che possano svolgere la funzione di elaborare la violenza e la paura.

Il mediatore ha il compito di dare spazio alle persone invisibili al fine che possano contare, e possano contare una per una. Tutti in realtà apparteniamo alla società; è il vissuto che ci fa sentire che non lo siamo più; ed è sul vissuto che possiamo e dobbiamo lavorare.

Armando: Invisibile! Anche molti in galera hanno questo vissuto.
Forse noi detenuti non cerchiamo di appartenere, ma di possedere. Io baro perché voglio possedere. Abbiamo fatto crimini per sfuggire al lavoro, per truccare le carte arricchendoci in fretta e con meno noia e fatica di una vita passata a guadagnare lentamente. Truccare il motore per non volere il mondo così com’è. Ho in mente la mia esperienza di migrazione e le due società che ho trovato. Noi siamo pronti a lavorare per appartenere a questa società; ma allo stesso tempo temo di poter tornare a truccare le carte invece che giocarle.

Massimo: La giustizia, ora, più che riparatoria è retributiva, si forza di dare un senso di giustizia per sostituire la vendetta. Il senso di appartenenza va lavorato. Toccare il senso di ingiustizia percepita da vittima e reo. L’istituzione si deve far carico di garantire questo incontro di messaggi, svolto con linguaggi e strumenti diversi (che possono anche essere carenti o mancanti) da entrambe le parti.

Marcello: Io a un tipo come Nicola, fino a ieri, potevo solo volergli fregare il televisore… ma dal momento che grazie al gruppo l’ho incontrato e ci scambiamo fiducia (quel concetto di gestazione reciproca: io ne ho per gli altri e gli altri me ne danno) mi sento di appartenere, mi dà un senso di appartenenza; così non riuscirei più a fregarlo.

Come posso condividere ora senza fiducia qualcos’altro dal reato, con chi non ho condiviso nulla al momento del reato? Io non ho lui nella mia testa, e lui idem. E’ una cosa difficile da percepire, per me qui, il contatto con le persone di cui ho abusato.

Ceretti: C’è una buona intersezione di linguaggi fra noi e vedo un alto livello di riflessione e consapevolezza in questo gruppo. Per cui il mio mestiere, la mediazione, non è difficile!

I concetti e gli spunti teorici sono galassie per mettere in moto una serie di ragionamenti.

Io ci entro cercando come sempre di spostare volumi interiori. La mediazione sposta i volumi, realtà diverse con propri significati di giustizia e possibilità o meno di scambio.

Bisogna far presente al sistema penale che esistono anche istanze di giustizia riparativa. Senza prenderne il posto, ma affiancandole ad esso.

Le parole si inscrivono nel corpo; io le chiamo piccole prove di scomunica dal mondo, che quotidianamente si possono sommare. Una invariante, una frase ripetuta spesso dalle vittime è “non è più come prima”. E’ la perdita del prima: perché ho perso la fiducia e la sicurezza del mondo a causa del fatto che il mio corpo è stato violato e ora sento meno confini certi.

Per riconoscersi reciprocamente bisogna avere il desiderio di rispondere; si fa mediazione solo se le parti hanno intenzione di farlo. A volte è necessario incoraggiarlo, costruire un consenso sul percorso che, secondo l’esperto, è meglio compiere.

Il reato è una forma di relazione. Nei cosiddetti “reati senza vittime” (spaccio ad es.) è più difficile vedere la relazione: come risolvere il problema della mediazione? Invitando (ad es.) madri di tossicodipendenti morti per overdose. C’è sempre la possibilità che la violazione di un bene abbia una controparte.

Lo stato espropria le due parti (la parte lesa e il reo) del conflitto e lo avoca a sé, lo assume e lo ridistribuisce come terzo neutrale (il giudice).

Obiettivo della mediazione è anche restituire la capacità di rispondere degli eventi, dare la possibilità di riprendere le conseguenze del reato. Non percependo la decisione, come una decisione presa da altri sulle nostre azioni o scelte.

Nella tradizione ebraica: “Su 3 cose poggia il mondo: verità, giustizia e pace”.

Commesso un reato, tutte e tre vengono chiamate in causa. Esiste un senso di ingiustizia patito, prodotto, percepito; esistono un senso della pena comminata e un senso della comunità lesa (es. Concorezzo insicura).

Quello che diceva Marcello: il senso di fiducia può trovare nuove forme di intensità se hai la possibilità di fare un pezzo di cammino con la persona offesa: l’unica al mondo che ti può dire cosa ha provato. E tu sei l’unico al mondo che può rispondere da dove è venuto il gesto.

Marcello: Da tempo abbiamo in mente un convegno basato sul confronto rapinatori-rapinati, carnefice-vittima ecc. Un giorno abbiamo incontrato qui al gruppo la sig.a Bartocci, vedova di un gioielliere ucciso a Milano durante una rapina, con sua figlia ed un amico.

Ceretti: E’ proprio quello che intendevo e che mi interessa.

Il mediatore non aiuta nessuno, sono le parti a farlo.

A poco a poco nell’incontro spesso non si distingue più l’autore del crimine: ma questa non è confusione, emerge dalle parole e dalla ricostruzione della storia. Ed emerge dalla relazione che “le vittime sono anche in carcere”. Le parole ed i gesti vanno recuperati e possono tornare come prova di verità. E vedersele riconosciute dalla vittima non è poco.