| GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE |
a cura di Silvia Casanova | Verbale 06-06-2005 |
L’incontro si apre con la lettura di uno stralcio dell'intervista sulla pena alla Dott.ssa Manzelli. Il dibattito verte inizialmente sullo stile della Direttrice.
Enzo sottolinea l’importanza della certezza della regola, affermando che la dott.ssa Manzelli è tempestiva nell’applicazione della sanzione.
Marcello ribatte sottolineando l’importanza della chiarezza delle regole.
Armando parla del comportamento in carcere: non esporsi a sanzioni disciplinari non equivale ad avere un comportamento sempre corretto e soprattutto non è un indicatore di cambiamento interno.
Mimmo segnala la necessità di discutere sull’evoluzione del condannato ai fini della preparazione del convegno.
Silvia e Livia chiedono al dott. Aparo di ripassare gli obiettivi del convegno.
Aparo: riprendo alcune delle cose che mi hanno colpito in questi giorni.
In queste settimane abbiamo sentito dire spesso che la punizione deve essere equilibrata e tempestiva. Abbiamo visto che ne parlava anche Cesare Beccaria.
A proposito di quest’ultima caratteristica, mi vengono in mente gli esperimenti sui topi dei comportamentisti americani, che a loro volta discendevano dagli esperimenti sui riflessi condizionati che Pavlov aveva iniziato nel secolo precedente. Nel 1912 il comportamentismo americano tenta l’applicazione di questi principi sugli uomini. Ma gli uomini non sono topi.
Non ho nulla da obiettare ai concetti di pena equa, tempestiva, prevedibile e codificata dalla legge, ma vorrei riproporre una domanda dell'intervista sulla punizione: quali sono le costanti degli atteggiamenti che portano alla trasgressione?
Tendenzialmente sono di tipo narcisistico, cioè gli atteggiamenti di una persona che non tiene conto dei limiti imposti dalla realtà: si ha bisogno di raggiungere in fretta dei risultati perché non si è arrivati a maturare la fiducia nelle proprie capacità, la tolleranza alla fatica necessaria alla propria realizzazione, la solidità per fronteggiare la paura di non essere all’altezza dei propri ideali.
Questa incapacità di far riferimento alle proprie risorse per godere della vita è un concetto presente anche nella riflessione di Padre Bertagna: quando si parla del peccato originale che si rinnova ogni giorno, si sta parlando della brama di avere tutto e subito e dell’incapacità di fare i conti con il limite.
La punizione, idealmente, ha come scopo la promozione della capacità di rispondere alla collettività del proprio operato. Questo è un concetto comune a diversi ambiti culturali: la teologia, la filosofia, il diritto, la psicologia.
La punizione, perché sia proficua, deve promuovere il senso di responsabilità, cioè l’autonoma volontà di rispondere delle proprie scelte, e deve consentire di rielaborare la relazione affettiva con l’altro, con se stessi e con l’autorità. Senza di ciò, nella migliore delle ipotesi, si avrà una persona che ha imparato ad ubbidire alle norme o a torcerle ai propri scopi, non una persona con il senso della collettività o della responsabilità.
Chi subisce una punizione, di solito, ha già un’immagine precostituita di chi la infligge; spesso questa immagine si sovrappone a quella di un tiranno. Visto che le cose stanno così, è bene che chi punisce non dia una mano a chi viene punito per confermare che il mondo è tutto una tirannia.
Quando un genitore riprende il figlio, gli chiede di ubbidire o gli chiede di imparare il senso del limite e di crescere? La legge chiede al detenuto di essere un delinquente laureato in buone maniere o gli chiede di diventare un cittadino responsabile?
Il carcere può ottenere l’obbedienza alla norma attraverso i labirinti di Thorndike (quello degli esperimenti coi topi). Ottenuto ciò durante la carcerazione, si è ottenuto un uomo desideroso di essere responsabile quando sarà messo in libertà? Credo che ci si senta cittadini liberi quando ci si sente proprietari delle norme, non quando si ubbidisce alle norme; credo che l’ubbidienza sia un surrogato dell’interiorizzazione e che imparare a obbedire sia molto diverso da evolversi. Oltretutto, per una persona che fa le rapine per ricoverarsi fra le braccia dell’eroina può bastare imparare a rispettare le norme?
Il gruppo cerca punti di contatto tra reati e sintomi nevrotici per tentare di individuare come si perde il piacere della responsabilità e come lo si può recuperare nella comunicazione e nella collaborazione con gli altri.
Questo sarebbe relativamente facile se l’uomo fosse caratterizzato solo dalla voglia di crescere.
Ma non è così! Fare i conti con il fatto che l’uomo non è proiettato solo verso la migliore realizzazione di se stesso è fare un passo verso il senso di realtà.
La strada che percorriamo fino alla morte è segnata da due spinte di segno opposto: solo con la consapevolezza di questo si possono costruire le condizioni per procedere in avanti. E’ proprio la coscienza della nostra doppia spinta che ci può fare identificare le condizioni per appagare le componenti regressive senza rimanerne vittime.
In questa lotta, in questo cammino (che è il cammino dell’uomo, non del delinquente!), la pena e la sua concreta attuazione come si inseriscono? Come intervengono la legge e la pena nel conflitto tra la voglia di essere all’altezza dei propri ideali e l’incapacità di percorrere questa strada? Su questa faccenda abbiamo già acquisito tutto ciò che occorre sapere o è il caso di interrogarci ancora?
Se il narcisismo, la smania di potere, l’autodistruttività, l’attitudine a crogiolarsi nel proprio senso di impotenza e di emarginazione, se tutte queste cose fanno parte del patrimonio umano, noi non possiamo ignorarle. Se anche il carcere fosse fatto d’oro, questo non sarebbe sufficiente a trasformare l’autodistruttività in voglia di fare, né la smania di potere in disponibilità a farsi venire i calli alle mani.
Quali sono gli elementi che ostacolano la motivazione a far parte responsabilmente della collettività? A chi spetta interrogarsi su queste cose, se non alle istituzioni deputate a tutelare la collettività? E a chi dobbiamo chiedere di aiutarci a metterci le mani, se non alle persone che per questi ostacoli hanno provocato dolore alla collettività, a se stessi e ai propri familiari?
Il gruppo non ha lo scopo di promuovere un carcere più “garbato” affinché i detenuti stiano meglio (anche se non dispiace che ciò avvenga); l’obiettivo principale è che si vuole usare l’esperienza di chi ha commesso reati per comprendere di più chi siamo, cosa ci allontana dal nostri primi obiettivi e per alimentare la collaborazione fra forze oggi distanti.
Il detenuto può evolversi e maturare prestazioni più adulte con sé e con gli altri, non se l’obiettivo è farlo star bene in carcere, ma se egli è chiamato alla e sostenuto nella collaborazione fra cittadini adulti e responsabili. Che il detenuto sia rispettato dall’istituzione è una premessa necessaria, ma non sufficiente. Per diventare cittadini occorre essere chiamati a svolgere funzioni da cittadini. E chi può chiamare a questo compito se non le istituzioni e la città?
Da “Un genitore quasi perfetto” di Bruno Bettelheim
“C’è un abisso tra ubbidire agli ordini di qualcuno ed esercitare l’autocontrollo. (…) La richiesta –fallo per la tua mamma- che pure è un necessario punto di partenza, porterà al fallimento dello sviluppo della personalità se non sfocia nel patto che il bambino stipula con se stesso.
Il proposito –voglio abituarmi- si trasforma nella constatazione –ci sono riuscito da solo- che è la base dell’autostima.”
“Si innesca un processo che in ultima analisi deciderà del successo e del fallimento della nostra vita: capire se e fino a che punto possiamo modificare e sublimare ciò che preme dall’interno, per alleviare la tensione e soddisfare così il nostro bisogno nella realtà; e questo non solo nel presente immediato ma anche a lungo termine.
Via via che riusciamo a garantirci dei vantaggi permanenti, siamo più disposti a rinunciare al principio di piacere per vivere secondo il principio di realtà.
E nella misura in cui ne siamo capaci nella stessa misura riusciremo a gestire le energie che scaturiscono dall’inconscio e a porle al nostro servizio in modo costruttivo e realistico, migliorando così la nostra capacità di far fronte alla vita.”