Partecipano al gruppo Federica Capecchi, giornalista de "La stampa" e Alice Ordanini e Cosimo Colbertaldo, membri del gruppo esterno.
Saliamo le scale che portano alla redazione nella sezione penale. Una volta entrato vedo volti sorridenti, anche se alcuni tesi, forse per la presenza di una giornalista.
Ci sediamo intorno al tavolo, vicini e raggruppati poiché il gruppo è numeroso.
Il dott. Aparo presenta Federica e cerca di favorire un'atmosfera serena e amichevole. Fa notare che la presenza mia e d'Alice è soprattutto simbolica: non ricopriamo il nostro solito ruolo d'interlocutori. Dino puntualizza che si tratta di una presenza sostanziale, poiché testimonia la realtà del nostro essere un gruppo unito.
Federica si presenta e comunica il suo obiettivo: dare alla società civile uno spaccato della realtà carceraria e dell'attività del nostro gruppo.
La prima domanda che Federica pone riguarda le motivazioni personali.
Perché il gruppo? Perché trasgressione?
I detenuti raccontano dell'idea originaria del dott. Aparo, della fondazione del gruppo e della sua storia, del loro inserimento in esso. Hanno tutti molta voglia di parlare.
Salvatore parla della sua volontà di rompere il proprio isolamento e di rivedere le sue azioni delittuose in una nuova prospettiva, per avere un rapporto diverso con la collettività.
Enzo dice di essere entrato nel gruppo perché gli piace scrivere e con il fine di crescere dentro, riempire un vuoto, mettere a nudo se stesso.
Diego ricorda di aver visto crescere il valore del lavoro fino a giungere ai convegni e alla costruzione di una realtà molto solida, il dialogo con gli studenti e ammette con fierezza: "ciò che ho appreso qui dentro riguardo al comportamento umano non avrei potuto impararlo fuori".
Dino è detenuto in carcere da undici anni e sostiene che la detenzione lo ha portato a vivere esperienze di diverso genere. La motivazione che lo porta a lavorare nel gruppo è la ricerca di un confronto con la parte di società che aveva rifiutato. Inoltre intende riflettere sulle ragioni della sua devianza, che ancora non gli sono chiare, avendo trovato spesso spiegazioni teoriche non convincenti. Lo strumento principale della comunicazione, dice, è la lealtà. Siamo in cammino verso diverse mete.
Pippo inizia parlando della sfiducia che c'era all'inizio verso questo tipo d'attività. La cultura carceraria impone un sospetto verso chi viene dall'esterno.
Si cerca di superare i pregiudizi e correggere l'informazione distorta sulla realtà carcere. Sostiene che la devianza è un prodotto della società, la quale, disconosce le proprie responsabilità, non spende molte energie per recuperare chi cade in errore e produce invece emarginazione. Dice di sperare di crescere ancora seppur vivendo un periodo di forte conflittualità interiore.
Il dott. Aparo cerca ancora di alleggerire la tensione, avanzando l'ipotesi che possa essere dovuta al senso di responsabilità sempre maggiore che il gruppo sente verso la società con cui comunica. Scherza con Biagio.
Federica propone quindi la seconda domanda, riguardante il dialogo con l'esterno. Chiede quali potrebbero essere gli strumenti per raggiungere quella parte di società che per diversa sensibilità e cultura è meno preparata al confronto rispetto agli studenti universitari.
Diego sottolinea l'attività redazionale e il lavoro col sito; Salvatore risponde di voler dialogare anche attraverso la realizzazione di prodotti non solo scritti; Enzo risponde a Federica precisando che "gli studenti non sono dei privilegiati, ma persone coraggiose".
Vito parla dell'importanza di coinvolgere anche le persone che tendono a non interessarsi del problema carcere e della necessità di lavorare con costanza per ottenere quest'obiettivo.
Dino definisce il carcere come raccoglitore di tutte le domande cui non si è riusciti a dare risposta. La funzione degli studenti -dice- è quella di concorrere a reintegrare i detenuti come parte della società che senza di loro è incompiuta, imperfetta.
Ivano racconta della sua rabbia all'inizio della detenzione e del suo graduale cambiamento; oggi nota di usare a volte parole e definizioni nuove, in modo spontaneo, quasi senza accorgersene, di essere cresciuto, di avere la testa per ricominciare. Dice ancora: "non siamo da buttare via; io mi sento parte della società, mi sento e voglio rendermi utile".
Interviene Biagio: afferma di essersi mosso inizialmente per curiosità, di aver colto la fortuna di confrontarsi con il mondo esterno, uscendo da una sua mentalità che lo faceva sentire isolato. Ascoltando ("mi sedetti come semplice uditore") ho trovato persone che mi fanno sentire uno di loro. Fa battute sulla propria balbuzie, sull'incepparsi con le parole. Assicura che gli piace questo gruppo e "o' professore", che con la sua dialettica se ne esce con concetti incomprensibili. Afferma di voler unire l'utile al dilettevole. Abbiamo sbagliato e commesso errori, ma siamo ancora in grado di fare qualcosa di buono.
Federica, in un clima di maggiore serenità, propone un terzo argomento: non credete che portare qui dentro così tanta vita, che voi non potete poi praticare appieno, possa essere doloroso?
Dino parla del carcere come di un potente anestetico, del dolore che si prova nei colloqui con i familiari. L'unica via percorribile è quella della comprensione, sentire la mancanza è meglio dell'anestesia con cui ci si difende dopo anni di carcere; sentire il dolore è utile per poter vivere, una volta usciti, una vita "normale".
Salvatore sostiene che il rapporto con gli studenti sia la loro forza. Gli studenti sono il primo confronto, i primi interlocutori esterni con cui confrontare le proprie contraddizioni.
Valdimar parla del suo interesse per i temi del sito e del gruppo e dice di aver imparato molto.
Enzo concorda con l'affermazione di aver trovato la vita e sostiene che l'anestesia scompare attraverso l'intesa e la comunicazione. Diventa più difficile vivere da detenuti, quando gli studenti vengono a trovarti; "...ma il dispiacere della separazione dopo ogni incontro ti fa vivere di più"
Gianni prende la parola, dice di essere stato sempre un ascoltatore, non facendo parte del gruppo. Dice che la realtà esterna è tutt'altro che diversa da quella interna. Parla dell'occasione che queste discussioni forniscono a chi esce dal carcere: ricordare e trovare la forza di bloccarsi prima di compiere un altro reato.
Salvatore a questo punto obietta che ciò di cui stiamo parlando è un'oasi all'interno del carcere. Dino lo appoggia e sostiene che l'applicazione coerente dell'ordinamento penitenziario avviene in rari casi.
Interviene il dott. Aparo e valorizza le parole di Gianni. Questo gruppo -dice- non garantisce alla società il cambiamento delle persone, però amplia il numero delle cose pensabili. Quando sei fuori puoi ricordare quello che hai costruito con gli altri, le cose che costruisci ti appartengono, quindi ti ritrovi una gamma maggiore di sentimenti ed emozioni a disposizione per provare a scegliere cosa vuoi da te stesso.
Si inserisce nella discussione Claudio, dicendo di non porsi il problema della società, non avendo risposte. Dice di venire al gruppo per un fine personale, egoistico: cambiare il modo di vivere la carcerazione
Inizia quindi una discussione sulla cultura carceraria, che in passato non prevedeva alcun tipo di rapporto e, meno che mai, di collaborazione fra detenuti e figure istituzionali.
L'incontro si conclude parlando dei programmi, dei progetti, dei prossimi appuntamenti del gruppo della trasgressione.