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La questione psichiatrica
all'interno degli istituti di pena
Lo psichiatra penitenziario si trova a dover adempiere ad un duplice mandato, quello eminentemente clinico e quello di difesa sociale. Chi opera in ambito penitenziario e giudiziario, infatti, oltre a farsi carico dell'interesse del soggetto di cui si occupa, non può dimenticarsi di avere un committente, il giudice o l'amministrazione penitenziaria e comunque la società, come espressione di un mandato di interesse pubblico.
In modo molto schematico possiamo dire che lo psichiatra interviene nel sistema della giustizia penale con le seguenti funzioni:
Tralasciando le funzioni dello psichiatra chiamato a svolgere una perizia per conto dell'Amministrazione Penitenziaria o come consulente di parte, vorrei centrare l'attenzione sul ruolo dello psichiatra come operatore carcerario.
In questo caso l'ambiguità di ruolo è massima, poiché nella stessa persona confluiscono le funzioni di colui che deve fornire informazioni all'autorità giudiziaria o all'amministrazione penitenziaria e, quella di operatore del trattamento. Si tratta in sostanza di una situazione in cui convivono controllo e cura, in cui lo psichiatra che opera in carcere oltre che terapeuta (prestando assistenza e cura ai detenuti con disturbi psichiatrici o, più semplicemente, con difficoltà psicologiche), diviene anche criminologo. Come tale è fra coloro che si occupano, per conto dell'amministrazione giudiziaria o penitenziaria, di studiare la personalità di un delinquente per valutarne la probabilità di recidiva, la idoneità a fruire di benefici, di riduzioni di pena, di sanzioni, di misure alternative. Egli, in sostanza, per esercitare questa attività, dovrà spogliarsi, in parte, di ciò che costituisce l'abituale veste professionale di ogni clinico, vale a dire quel particolare atteggiamento di affettività che lo porta ad essere solidale col soggetto che gli si affida in cerca di aiuto. In pratica l'alleanza terapeutica viene a scontrarsi con il fatto che il paziente, in molti casi, è esaminato non in prospettiva di una cura o di un intervento a suo favore, bensì per assolvere a richieste e a necessità dell'amministrazione giudiziaria.
La duplicità del mandato, l'impossibilità di un'effettiva alleanza terapeutica e il dover esaminare in modo neutrale un soggetto creano una situazione di ambiguità e di conflitto, che sono comunque inevitabili, e che è compito etico dell'esperto conciliare.
Questo duplice mandato si avvicina a quello del quale si trova investito il normale psichiatra operante nelle strutture civili, il quale, sebbene abbia essenzialmente un mandato di cura, non può sfuggire a compiti di controllo sociale. Ma, mentre per lo psichiatra diciamo "civile" questa è un'evenienza eccezionale o quantomeno rara, la duplicità del ruolo è pressoché la regola quando lo psichiatra è chiamato ad operare nel contesto delle istituzioni carcerarie.
"La duplicità del ruolo, tra l'altro, comporta per lui un atteggiamento che non deve essere certo di diffidenza aprioristica, e men che meno di preconcetta ostilità, ma non può essere neppure di acritica accettazione di tutto quanto gli viene riferito: certo neppure il terapeuta stimerà sempre e comunque sincere le parole del detenuto, ma la corrispondenza al vero avrà per lui minor importanza, rilevando piuttosto, ai suoi fini, il perché una cosa viene sottaciuta ed un'altra magari travisata: in terapia, cioè, conta più il vissuto, in criminologia più il fatto" (2).
Ne consegue la necessità di essere consapevoli che il reo in questione, sul quale lo psichiatra è chiamato a formulare giudizi, possa avere particolare interesse a simulare o dissimulare stati d'animo e propositi, addirittura cercare di manipolare e strumentalizzare l'esaminatore, dal giudizio del quale possono a lui derivare concreti ed attuali benefici o pregiudizi in termini di libertà personale. Discuterò in modo più esteso questo argomento al § n. 7 della prima parte.
La particolare caratteristica del soggetto che lo psichiatra si trova di fronte, quella cioè di aver commesso un reato, comporta d'altra parte il rischio opposto a quello terapeutico, rischio del "distanziamento moralistico" (3).
Ponti sottolinea che nell'incontro terapeutico non psichiatrico non ha incidenza il confronto fra due concezioni di vita, fra due morali che possono essere diverse. Nel rapporto psichiatrico invece ciò può accadere, in quanto uno dei soggetti coinvolti nella relazione ha commesso un reato, ha cioè infranto delle norme che, pur in una situazione di confusione di valori com'è probabilmente quella attuale, più o meno rispecchiano le nostre concezioni su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Anche chi ritenga di essere particolarmente anticonformista, o non voglia imporre i propri valori morali e sociali, troverà comunque dei comportamenti che non solo disapprova, ma che magari turbano profondamente il suo senso di giustizia, ed è ovvio che prima o poi lo psichiatra si trovi di fronte a soggetti che hanno messo in atto questi comportamenti. Tutto ciò non è necessariamente giusto o sbagliato, è probabilmente solo umano, si tratta di imparare a convivervi, distinguendo tra "morale" e "moralismo". L'obiettivo ideale è, secondo Ponti, quello di trovare un giusto quanto difficile equilibrio fra i compiti valutativi, la consapevolezza del ruolo pubblico e delle conseguenze che esso comporta e la disponibilità empatica, che sola può consentire la comprensione.
La duplicità del ruolo ha poi riverberi particolari sul problema del segreto professionale dello psichiatra: esso potrà essere invocato solo quando il suo ruolo è esclusivamente terapeutico. Quando invece il suo compito è quello di fornire informazioni richieste dall'amministrazione della giustizia per formulare programmi di trattamento o per la concessione delle misure premiali, allora non può invocarsi il segreto professionale, pena il venir meno dello scopo stesso del suo accertamento. E ciò ovviamente anche quando le informazioni acquisite possono essere dannose al soggetto in esame.
Altra questione generale è quella che concerne la necessità di aver consapevolezza del carattere relativo delle conoscenze in materia di personalità. Il problema è comune a tutte le scienze dell'uomo ove la soggettività del giudizio gioca un ruolo preponderante:
Ciò non vuol dire rinunciare in partenza alla ricerca di conoscenze, ma certamente obbliga alla cautela, alla modestia, alla consapevolezza dei limiti dell'operare psichiatrico.
Ciò vale ancor più nei giudizi di previsione del comportamento futuro, cioè nei giudizi che concernono la pericolosità sociale, per i quali la prudenza è resa obbligatoria non solo dalla relatività della conoscenza predittiva, ma anche dalla consapevolezza delle rilevanti implicazioni che il giudizio comporta sia per il soggetto che per la società.
È evidente quindi che la figura dello psichiatra che opera in ambiente penitenziario sia caratterizzata da questioni deontologiche non indifferenti, accentuate dalla duplicità di ruolo di cui egli è investito.
È però ovviamente difficile sdoppiare l'operatore nei due ruoli distinti, talché è stato più volte auspicato, anche da Ponti e Merzagora, che le due funzioni fossero effettivamente svolte da persone differenti, e non solo in momenti diversi della loro attività. Questa netta differenziazione di funzioni è stata prevista dalla legge nel momento in cui stabilisce che l'esperto facente parte del collegio giudicante del tribunale di sorveglianza non possa operare in carcere. Ragioni analoghe varrebbero qui, in quanto l'attività di fornire informazioni è pur sempre attività di valutazione, anche se non strettamente giudicante.
Nel momento in cui l'esperto effettua l'osservazione, quindi, l'ambiguità di ruolo e la difficoltà dell'operare derivano dal fatto che la sua funzione si esplica nell'ambiente carcerario, a stretto contatto con i detenuti, esposto a minacce e pressioni provenienti spesso dalla stessa Amministrazione penitenziaria o dagli altri medici penitenziari e contemporaneamente gli viene assegnata una funzione valutativa. Egli può trovarsi perciò esposto alla necessità di effettuare apprezzamenti negativi, con pesanti conseguenze sulla libertà del soggetto: giudizi che non può evitare in questo ruolo perché è investito di una funzione pubblica a lui richiesta a tutela della società, che deve essere quella in definitiva in lui preminente. "Senza assumere atteggiamenti preconcetti nei confronti del detenuto, dovranno prevalere la neutralità e l'oggettività connesse al ruolo di rappresentante di valori sociali di cui in questa fase lo psichiatra è investito" (5).
La situazione si capovolge in un certo senso quando lo psichiatra agisce come operatore del trattamento, quando cioè il ruolo clinico è quello preminente. Gli obiettivi che l'operatore qui si pone sono quelli del recare aiuto, di alleviare le sofferenze e le preoccupazioni, di supportare la persona di fronte alle difficoltà che frequentemente gli si prospettano nel momento della condanna, durante la carcerazione ed anche in vista dell'imminente reinserimento nella vita libera. Questo tipo di attività comporta pertanto un atteggiamento di completa disponibilità, di empatia e di alleanza terapeutica. Tale intervento non può ovviamente essere imposto, ma si fonda sulla richiesta e sulla libera accettazione da parte del soggetto.
Al di là di questi interventi di aiuto e sostegno o anche propriamente curativi, lo psichiatra che stringe un'alleanza terapeutica non può però dimenticare di essere anche investito della responsabilità di effettuare un intervento pur sempre mirato a trattamenti correzionali, tenendo presenti i fini istituzionali della risocializzazione.
Come sostiene Solivetti (6), la riabilitazione del detenuto, di una persona estremamente sofferente perché priva del prezioso bene della libertà personale, non è però compito che può riguardare esclusivamente l'Amministrazione Penitenziaria, ma richiede l'impegno di tutte le forze sane della società per consentire che in essa rientri colui che, con il delitto, se ne è allontanato.
La partecipazione di nuove figure professionali all'opera di rieducazione è la più significativa espressione della sensibilità della società a tematiche fino a qualche tempo fa del tutto trascurate, per il prevalere della concezione custodialistica e del rifiuto del carcere perché considerato "altro" rispetto al normale contesto sociale.
Per Solivetti si tratta, allora, di rendere la pena utile non solo per lo stesso detenuto che la sconta, ma anche per la società che riacquista, a beneficio dell'intera collettività, un nuovo soggetto profondamente diverso dall'uomo del delitto. Al di là del valore retributivo della pena e al di là dei suoi fini di sicurezza per la società, l'esperienza detentiva non può risolversi in un parcheggio inutile o addirittura dannoso alla stessa società, della personalità del reo. Nel convincimento che non sia sufficiente la carcerazione da sola ad avviare un processo di riabilitazione, che oggi si configura quasi come un'utopica auto-redenzione, tutti i mezzi a disposizione, sociali, scientifici e legislativi debbono essere utilizzati al fine di permettere al detenuto il reinserimento nella società.
Secondo alcuni autori l'impegno sociale e legislativo dovrebbe essere rivolto alla costruzione di un nuovo patto sociale e di una nuova identità comportamentale del detenuto. Concetto che rappresenta una radicale opposizione al principio, sia morale che giuridico, che considerava inopportuno ogni intervento psicologico o psichiatrico sulla personalità del detenuto, visti come violenza sul libero arbitrio del carcerato.
Personalmente nutro delle forti perplessità al riguardo. Sono d'accordo infatti con Bandini e Gatti (7) circa il fatto che il trattamento inteso in senso tradizionale, e cioè la trasformazione della personalità finalizzata ad ottenere un cittadino rispettoso delle leggi, non soltanto è del tutto inutile, ma è anche gravemente mistificante. E non solo inutili, ma addirittura dannosi sono gli interventi psichiatrici rieducativi in conflitto con il libero arbitrio che ogni uomo, in quanto tale, ha diritto ad avere.
Nel processo di rieducazione del condannato un ruolo più o meno importante a seconda dei punti di vista è svolto dalla psichiatria. Ma se il fine della psicoterapia consiste nell'annullamento della figura caratteriale, culturale e comportamentale del soggetto, attraverso una regressione coercitiva, a quali modelli potrà riferirsi il terapeuta per operare la sostituzione di valori e referenti pretesa dai progetti trattamentali?
Non è mia intenzione affrontare qui il tema dell'osservazione e trattamento del detenuto cui sarà completamente dedicato il prossimo paragrafo; vorrei invece centrare l'attenzione sul ruolo dello psichiatra all'interno del carcere, cercando di capire se spetta a lui rieducare, o se egli abbia invece compiti e fini esclusivamente terapeutici.
Molti psichiatri penitenziari ritengono che il loro compito sia quello della diagnosi e cura degli stati morbosi, nonché della prevenzione delle ricadute, con l'obiettivo di minimizzare i danni che un sistema ingiusto produce a persone socialmente sfavorite. Altri (8), a mio avviso un po' presuntuosamente, considerano la rieducazione sociale un parto della riabilitazione psichiatrica, sostenendo che per riabilitare una persona sia a livello psichiatrico che giuridico, sia necessario suscitare in essa una passione che può nascere solo all'interno di una relazione psicoterapeutica.
Non è allo psichiatra che spetta il difficile compito della rieducazione, semmai all'istituzione penitenziaria nel suo complesso, attraverso le molteplici figure professionali che operano all'interno di essa:
L'Ordinamento Penitenziario all'art. 1 stabilisce che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi". L'inciso "anche attraverso contatti con l'ambiente esterno" rafforza l'idea che si tratti di reinserimento sociale e non di mera emenda morale o di riabilitazione psichiatrica. Quando poi la stessa legge all'art. 15 stabilisce gli elementi del trattamento e li individua -oltre che nell'istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali ricreative e sportive- nell'agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno, ancora una volta è chiaro che il trattamento rieducativo ha per scopo precipuo ed essenziale la ripresa, un giorno, della vita all'esterno del penitenziario, e cioè appunto il recupero del reo alla vita sociale.
In questo contesto ritengo che il compito dello psichiatra penitenziario sia quello di recare cura e assistenza ai detenuti e non quello di rieducare.
Curare perché, come ho già detto, sono molti i disturbi psichici di cui soffrono i condannati sia a causa delle stesse condizioni di vita all'interno del carcere, sia per tutti quei disagi che in carcere trovano terreno fertile per sbocciare e maturare. Assistere perché dopo un periodo di carcerazione, di allontanamento forzato dalla vita collettiva non è semplice rientrare nella società ed un supporto psicologico e psichiatrico può senz'altro essere d'aiuto nel tragitto personale che ogni detenuto deve compiere per accettare il carcere, il limite e soprattutto il contenimento che molti soggetti da soli non sono riusciti a trovare.
Solo dopo tale conquista si può iniziare a parlare di rieducazione. Se l'obiettivo della psichiatria non fosse quello di emendare la morale (deviante) di questi soggetti detenuti, aspirando invece ad una riabilitazione che sia prima di tutto psichiatrica, allora forse lo psichiatra potrebbe effettivamente portare un valido contributo al processo di reinserimento sociale.
La necessità di svolgere una funzione intermedia fra i bisogni del detenuto e il mandato repressivo e contenitivo del carcere è quindi alla base di tutte le responsabilità che gravano sullo psichiatra penitenziario. Egli rimane colui che da un lato non può ignorare la legalità, ma dall'altro comprende i motivi che hanno portato allo sconfinamento nell'illegalità. Inevitabilmente egli si troverà ad essere soggetto a pressioni e sarà coinvolto in una lunga serie di scontri: con il personale militare, ad esempio, ma anche con gli altri medici penitenziari che, pur avendo in comune con i primi lo stesso mandato terapeutico, concepiscono il carcere in maniera diversa, ritenendo inconcepibile parlare di sofferenza psichica e affettiva dei detenuti (10).
Spesso ho sentito dire dagli operatori penitenziari che per svolgere la propria professione in un carcere bisogna tracciare delle linee di confine: solo riuscendo a non farsi coinvolgere personalmente, infatti, si può sopravvivere. Il ruolo dello psichiatra, invece, se adempiuto seriamente e con umanità, non permette un distacco netto dalle vicende personali dei reclusi.
Questo farsi carico di grandi problematiche per offrire una progettualità di ricostruzione personale al paziente, è senz'altro una delle più grosse responsabilità che incombono sullo psichiatra. Ma non è certo l'unica; esse sono numerose e pesanti, poiché il confine tra malattia mentale e normalità, in certi casi, diventa molto labile.
Pensiamo alla decisione di presentare richiesta di ricovero esterno: allo psichiatra non solo spetta il difficile compito di valutare se per il detenuto sia più opportuno rimanere in carcere o essere ricoverato all'esterno, ma anche quello di sfidare nel secondo caso l'organizzazione carceraria a causa del già ricordato atteggiamento di resistenza dell'Amministrazione Penitenziaria che, per motivi di sicurezza e di custodia, è restia ad effettuare ricoveri esterni (11).
Non dimentichiamoci, infine, che i detenuti fanno tante richieste, per vedere soddisfatte le quali si dicono pronti a qualunque cosa. Minacciano di tagliarsi, anche di uccidersi se non vedono il magistrato inquirente, se non ricevono la visita urgente dello psichiatra, dal quale magari non vogliono altro che uno psicofarmaco. In questa molteplicità di richieste e di minacce lo psichiatra deve valutare i reali rischi e conseguentemente agire secondo coscienza ed esperienza. Non tutto ciò che viene richiesto può essere concesso, e lo psichiatra deve sapere o quantomeno decidere che cosa si può concedere e in che misura (12).
È ormai a tutti noto che in carcere si verificano maltrattamenti e "pestaggi" ai danni dei detenuti, indagini a livello internazionale hanno messo in luce questo fenomeno (13). Pensiamoci un attimo: a chi il detenuto picchiato griderà la sua rabbia e il suo dolore? Verosimilmente allo psichiatra, deputato ad ascoltare e assistere, a farsi carico dei problemi e delle sofferenze dei reclusi. E lo psichiatra? Si troverà di fronte all'ennesima scelta: denunciare l'abuso perpetrato dagli agenti di custodia o dai gradi più elevati dell'amministrazione, in nome della giustizia sì, ma esponendo il detenuto al rischio di ritorsioni ancora peggiori per aver parlato o, invece lasciar perdere - anche se sembra assurdo - nell'interesse del detenuto, ritrovandosi poi a fare i conti con la propria coscienza?
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