Da Rassegna Stampa: La Repubblica
Tali pratiche mediche generano un senso di dissociazione: consideriamo il nostro corpo come una macchina |
Alla base di questa scelta non si fatica a scorgere un senso di onnipotenza, per cui io posso fare quel che natura non mi concede. E questo grazie alla tecnica che è in grado di realizzare il mio desiderio chiedendomi però come prezzo quello di visualizzare il mio e l'altrui corpo come semplici macchine, alcune delle quali forniscono la materia prima, altre il laboratorio per la sua elaborazione.
Questo processo di materializzazione, per cui io non coincido più con il mio corpo, ma me ne servo come di uno strumento a mia disposizione, è l'esatta definizione della schizofrenia, dove un processo di dissociazione mi fa fare esperienza del mio corpo come di qualcos'altro da me.
È questo un fenomeno che ciascuno di noi conosce quando si ammala, quando cioè il corpo, invece di essere il veicolo, diventa l'ostacolo da superare per essere al mondo. Allora a far senso non è più il mondo, ma il corpo che la malattia trasforma da soggetto di intenzioni a oggetto d'attenzione. Lo spazio che interessa si riduce alle dimensioni dell'organismo e il tempo al decorso della malattia. Questa dissociazione tra il nostro io e il nostro corpo, che ogni malattia porta inevitabilmente con sé, è il primo segno della nostra fuoriuscita dal mondo, è un'anticipazione della morte. La stessa anticipazione che notiamo in ogni anoressica che vive il suo corpo come un impedimento alla piena realizzazione di sé. E perciò lo mortifica, sottoponendolo a indescrivibili pratiche di digiuno, nell'illusione di poter realizzare l'ideale di sé solo prescindendo dal corpo.
Questo genere di dissociazione è la stessa che troviamo alla base di tutte quelle pratiche mediche che possono realizzare desideri di generazione solo persuadendo che noi non siamo il nostro corpo, ma il corpo è solo una macchina a disposizione del nostro desiderio.
No signori, non è così. Da che mondo è mondo è proprio il corpo a segnare il limite delle nostre possibilità e dei nostri desideri. E tentare di oltrepassare il limite significa infilarsi in quei deliri di onnipotenza dove un Io decorporeizzato tratta il proprio corpo come si trattano le cose, maneggiandolo e intervenendo come si maneggiano e si interviene sulle cose.
A questa mentalità materialista, tipica dell'Occidente, la cui cultura prevede che in linea di massima ogni desiderio possa essere realizzato, persino al di là dei limiti della materia, ha dato man forte da un lato la religione cristiana che ha fissato nell'anima il principio dell'identità personale riducendo il corpo a pura carne da redimere, e dall'altro la scienza medica che, per le sue giuste esigenze di metodo, ha ridotto il "corpo" a semplice "organismo" privo di ogni connotato egoico, di ogni valenza psichica e intenzionale, fino a concepirlo come un qualsiasi oggetto di natura, simile in tutto e per tutto alle altre cose che la scienza trova nel mondo e sottopone alla sua analisi in vista dei fini che si propone.
Adottando il punto di vista scientifico, divenuto ormai mentalità comune, ciascuno di noi finisce per concepire il proprio corpo solo come sua estraneità, e così perde quel senso di intima appartenenza per cui non dico, quando "sono" stanco, di "avere" un corpo stanco. Perché il corpo non è un mio "avere", ma è il mio "essere".
E non è un prescindere dal proprio "intimo essere" parlare dei propri ovuli o dei propri semi come di cose di cui posso "disporre", oppure del proprio utero come di qualcosa che posso "affittare"? Se è vero, come diceva Heidegger, che "il linguaggio parla" ciò che queste espressioni dicono non è forse quell'intima dissociazione tra sé e il proprio corpo che riscontriamo alla base dei più gravi squilibri mentali? Con ciò non si vuol dire che i due genitori che hanno inviato gli embrioni in America, dove hanno affittato l'utero di una donna che li ha poi generati, siano degli squilibrati, certo hanno dato anch'essi il loro contributo a quella mentalità che considera il corpo un semplice strumento a disposizione di un desiderio che non conosce limiti. È una mentalità questa molto pericolosa, perché quando il nostro corpo è ridotto al rango di "materia prima", dite un po' voi dove può cadere, ormai, la differenza tra l'uomo e le cose? E se questa differenza cade, quale altro criterio abbiamo per riconoscere un uomo?