Trasgressione e reclusione

Libertà o vincolo?

 

Carlo Valitutti


Lo psichiatra spesso si occupa (e vive) di situazioni di crisi e destrutturazioni, di fratture sociali e culturali, di libertà simboliche e di costrizioni psicopatologiche, di speranze e di desideri, di sofferenza e di dolore. Egli stesso finisce per rappresentare a volte una sorta di argine terapeutico e conoscitivo, un ideale (e conflittuale) punto di incontro tra il sistema sociale ed il circolo vizioso e drammatico della follia e della trasgressione psicopatologica, stimolando così la riflessione, la comprensione e la ricerca.

Lo psichiatra che lavora in carcere vive quotidianamente in un'area di confine e di reclusione emotiva, un territorio di frontiera che evoca peraltro anche un'immagine di contiguità, di vicinanza, di conoscenza. La "solitudine in presenza di qualcuno", come diceva suggestivamente Winnicott, in carcere corre il rischio di diventare una dolorosa condizione di vita, una difesa necessaria e non sempre feconda. Il desiderio di negazione e di indifferenza, fantasma presente spesso in modo perturbante quando ci si avvicina all'apparente estraneità della malattia mentale, sembra a volte difendere dalla fatica e dalla difficoltà di un impegno necessario e sostanzialmente diverso.

E' per questo, e per altri motivi facilmente comprensibili, che uno spazio di discussione e di confronto può rappresentare un'occasione di crescita e di scambio in cui far confluire esperienze diverse e pur sempre arricchenti. Come dice Mario Galzigna dobbiamo attingere alla ricchezza dell'io plurale, sviluppando così un'attenzione per l'altro che vive dentro di noi e per l'altro che vive fuori di noi.

Nel mondo così complesso e stratificato in cui viviamo (anche per nostra scelta) abituarci ad una sorta di umiltà epistemologica diventa un'esigenza quasi esistenziale (e per lo psichiatra in misura ancora più evidente), ed essere consapevoli che l'Io è abitato da pluralità e riconoscere dentro di sè la presenza di valori confliggenti è forse ineludibile per poter sviluppare una cultura dell'alterità, dell'ascolto e delll'accoglienza. Ciò presuppone naturalmente flessibilità e disponibilità, e non può essere tanto meno un'operazione politicamente neutra.

Entrare in contatto con la colpa e la trasgressione, la pena e la reclusione, e dunque con l'ambiguità della contraddizione dialettica dell'assistenza-repressione insita nel lavoro psichiatrico (come spesso ha detto Giovanni Jervis), trova in carcere un humus ideale e dolorosamente attuale.

Nelle reti reali e virtuali della nostra esistenza abita l'altro, il diverso, l'alieno, il trasgressore, il recluso. La nostra stessa identità forse non può essere concepita come un dato assoluto perchè è continuamente in relazione con l'altro.
E' per questo che ho accolto con molto piacere l'invito di Marco Longo a creare un'area in cui parlare di questi temi, e forse, più semplicemente, per sentirmi meno solo.