PER ERIKA TIFO DA STADIO
Domenica 24 Febbraio 2002

di LUIGI CANCRINI

MI SONO chiesto spesso perché si parla tanto di Erika e così poco di Omar. La risposta sta probabilmente nel fatto che la personalità di Omar sembra quella del gregario che ha agito eseguendo un ordine. Un ordine che veniva, appunto, da Erika. L’immaginario collettivo (o l’immaginario giornalistico che alla fine è quasi lo stesso) attribuisce a lei dunque, e in qualche modo solo a lei, il delitto di Novi Ligure. Facendone una eroina del male. Come dimostra il fatto che soprattutto di Erika e non particolarmente di Omar si è parlato ieri nel corso di un convegno promosso dall’Università di Chieti. Di fronte ad un pubblico traboccante, composto soprattutto da studenti, che ha reso necessaria la duplicazione degli spazi previsti inizialmente e che ha proposto un consenso emotivo fortissimo intorno alle richieste del difensore di Erika. Di cui non si può dire che sia colpevole, è stato detto ed urlato, perché l’assenza di sintomi non significa assenza di disturbo psichico e perché il disturbo psichico comunque implicito nel suo comportamento avrebbe comunque dovuto portare i giudici a stabilire la sua “non imputabilità".


Oggetto di un vero e proprio scontro fra periti della Procura dei minori e periti della difesa, il problema è, di fatto, un problema estremamente complesso. Cui poco giova il clima da stadio di cui parlano i giornalisti presenti a Chieti. Di cui in modo molto serio si dovrebbe continuare a parlare invece (e i promotori del convegno hanno ragione su questo) anche dopo che il processo è terminato.
Riflettendo prima di tutto sull’artificiosità di alcune distinzioni. Perché quello di Erika era sicuramente un disturbo di personalità (come ha correttamente sottolineato a Chieti uno specialista come Nicola Lalli) e perché si deve essere conseguenti, tuttavia, nel momento in cui lo si afferma. Dicendo chiaro, io almeno sento il bisogno di dirlo, che si tratta di un disturbo di personalità caratterizzato da un narcisismo francamente patologico e che una persona affetta da questo tipo di disturbo non avrebbe tratto e non trarrebbe domani alcun giovamento da una sentenza che la dichiara non imputabile: perché l’unica cosa seria che si può (deve) fare con persone come Erika è uno sforzo duro, paziente e insieme affettuoso di confronto con la realtà, con le conseguenze dei suoi atti con la loro sostanziale illogicità. E perché un lavoro di questo genere non si può fare, come ha giustamente notato l’avvocato Boccassi, il suo difensore, in una struttura carceraria in cui Erika incontra una volta a settimana per quindici minuti uno psichiatra. Se definire Erika imputabile significa dire che Erika non va curata seriamente perché è soltanto una criminale, l’esperienza carceraria altro non farà infatti che aggravare la sua difficoltà.

Quella che dobbiamo ripensare utilizzando i contributi che vengono dalla moderna ricerca psicoterapeutica è in effetti la strategia complessiva da mettere in campo quando ci si incontra con questo tipo di situazioni. Una pratica di lavoro ormai decennale con i tossicodipendenti e con le famiglie in cui si verificano abusi e maltrattamenti di ogni tipo, l’esperienza portata avanti incontrando in supervisione educatori e professionisti che lavorano nelle carceri o nell’ospedale psichiatrico giudiziario, mi hanno convinto sempre di più del fatto che le risposte da dare, quando si ha a che fare con strutture di personalità narcisistica con una evidente patologia del senso morale, si basano su due pilastri fondamentali: quello della contenzione perché nessuna ricerca di cura è possibile se non all’interno di un contesto costrittivo e quello della qualificazione alta, di livello psicoterapeutico, dell’équipe che ha compiti di cura nell’istituzione.

Una équipe che vuole fare bene il suo lavoro in queste condizioni deve aiutare la persona che sta male a ricostruire il percorso di vita che lo ha portato a questo star male. Deve evitare le scorciatoie pietistiche, autoritarie o farmacologiche. Deve costruire e gettare verso il futuro un ponte serio, basato sul recupero paziente della capacità di responsabilizzarsi da parte della persona in difficoltà. Rendendo così operante, con il suo lavoro, un rispetto, una pazienza, una capacità di ascolto e di vicinanza destinate altrimenti a lasciare le cose come stanno.