Tra dolore e follia | Martedì 14 Maggio 2002 |
di LUIGI CANCRINI
QUALCHE volta accade. Accade qualche volta che una donna malata senta e viva il figlio o la figlia come una parte di sé. Che perda il senso della distinzione, del confine che separa una persona ed un corpo da un'altra persona e da un altro corpo. Che sposti su quella parte di sé il nucleo fondamentale delle sue angosce e dei suoi sentimenti di inadeguatezza. Che vi diriga tutta la sua rabbia e le sue paure. Che tenti disperatamente di liberarsene. Uccidendola e continuando a distruggerla.
Accade ugualmente, qualche volta, che le persone che stanno vicino ad una donna così, ad una donna che vive una fase così, non riescano a percepire, prima che a capire, quanto lei stia male. Il marito che le vuole bene, i parenti, gli amici, se ci sono, pensano che la cosa migliore sia la minimizzazione. Il prendere tempo. Lo starle vicino aspettando che passi. Cercando di alleggerirle, magari, il peso delle cose che deve comunque fare. Evitando i discorsi che portano ai servizi psichiatrici per paura di offenderla, di dispiacerle, di farle male.
Vale la pena di riflettere molto seriamente sul perché di queste esitazioni, sull'immagine un po' assurda che ancora danno di sé gli psichiatri e i servizi di salute mentale. Di cui si ha spesso paura semplicemente perché l'idea (lo spettro) delle malattie mentali è quella di un gruppo di malattie che fanno l'essere umano che ne soffre qualitativamente e definitivamente diverso dagli altri esseri umani.
Malattie mentali come malattie da cui non si guarisce e di cui gli psichiatri sono i segnalatori. Utili a chi dai matti si deve difendere più che ai matti. Se questo pregiudizio resta intatto, infatti, l'idea di far seguire una persona o una famiglia a rischio resterà a lungo assai difficile da praticare.
Un elemento decisivo e trascurato nella lotta che si deve comunque intraprendere per il superamento di questo pregiudizio riguarda il modo in cui la psichiatria si presenta. Aver paura di una persona che ti scruta, come se avesse i raggi X incorporati, per capire cosa non funziona nel tuo cervello per darti accesso, dall'alto di un sapere tecnico, al farmaco giusto, quello con cui puoi tentare di stare un po' meglio, è caratteristico proprio delle persone più fragili, di quelle che sanno, sentono di poter perdere il controllo. Mentre assai più naturale potrebbe essere, per molte di queste persone, ricorrere ad un servizio dove si può essere ascoltati da una persona con cui si stabilisce un rapporto più personale, capace di aiutarti a mantenere o a riprendere il filo della tua vita. Usando anche i farmaci, quando questo serve, ma considerandoli sempre per quello che sono: un elemento utile, cioè, per sostenere una strategia terapeutica centrata sulla persona, sulle sue paure e sui suoi dubbi, sulle sue difficoltà e sui suoi problemi.
Qualche volta accade. Qualche volta accade ancora oggi che una persona che è stata già in cura presso una struttura psichiatrica sia considerata guarita solo perché lo psichiatra pensa che i farmaci sono tutto quello che le si può offrire e perché i farmaci hanno cancellato i sintomi con cui aveva parlato, in un certo periodo, della sua fragilità. Senza che ci fosse, nel servizio cui si è rivolta, un orecchio capace di ascoltare il suo dolore e di aiutarla a ricostruire la storia della sua vita; una persona, cioè, capace di costruire con lei e con i suoi famigliari quel tipo di rapporto speciale basato sulla formazione psicoterapeutica che rende naturale il pensiero di cercarla nel momento della difficoltà. Perché non di tutela o di sorveglianza c'è bisogno in molti di questi casi ma di disponibilità all'ascolto delle richieste. Richieste che vengono formulate solo se si è stati capaci di costruire relazioni davvero terapeutiche.
Il bisogno con cui ci si confronta quando una persona che è stata già seguita nei servizi va incontro ad un crollo come questo è soprattutto quello di una diversa cultura dei servizi. Bisogna capire prima di tutto lì, nei luoghi deputati alla cura, che il manifestarsi della follia altro non è che il venir fuori di un dolore che sarebbe stato possibile incontrare e curare se si fosse riusciti a preoccuparsi delle strutture di personalità più che dei sintomi, della persona più che dei suoi comportamenti.
Allora, solo allora, potremo dire e pensare di aver fatto tutto quello che era possibile fare per evitare che fatti come quello che è avvenuto ieri si ripetano domani o dopodomani.