SI DICE che l'assassino è il vuoto (nelle sue varianti più note: vuoto di valori, vuoto di ideali, vuoto di sentimenti), e lo si dice un po' ritualmente, magari per chiudere in fretta una così orribile istruttoria. Così che "l'assassino è il vuoto" suona come la variante pensosa de "l'assassino è il maggiordomo".
Il vuoto, però, aveva un alibi di ferro: non c' era. Non c'è. Ed è un bel pezzo che nessuno lo vede e lo sente.
Quella sera non era a Novi Ligure, non era in Italia, non era in alcun luogo dell'impero d'Occidente. Che è, con ogni evidenza, l'impero del Pieno, mica del Vuoto. E' il vasto, febbrile posto dove ogni casa, ogni minuto, ogni vita sono pieni di cose da fare e da dire, corsi da seguire, problemi da risolvere, programmi da registrare, appuntamenti da onorare, ansie da affrontare, sentimenti da approfondire, alimentazioni da riprogrammare, vacanze da rimandare, difetti da correggere, lacune da colmare, talenti da perfezionare, sicurezze da conquistare. Vuoto?
Sia pure con la fragile presunzione di ogni analisi indiziaria, proviamo a pensare il contrario. Proviamo a pensare che l'assassino sia il pieno. Che a interrompere la connessione tra una persona e il proprio sé possa essere, appunto, l'occupazione costante e greve del suo territorio mentale, l'abuso della psiche, l'attivazione simultanea di tutti i suoi talenti e i suoi desideri.
La mia memoria del vuoto (infantile e adolescenziale) è sommamente positiva. E' nella solitudine e nel vuoto di certi pomeriggi, di certi laschi passaggi tra un compito e una cena, di certe quasi ebetudini contemplative, che sono certo, assolutamente certo di avere inteso me stesso. Proprio fisicamente, voglio dire, sangue e respiro in quieta sospensione. Accettabile o mediocre che sia, sono certo che l'accordatura del mio essere è dipesa in larghissima parte da quei momenti di abbandono (in simbiosi, beninteso, con la socialità, gli amori e tutto il resto. Ma mai sovrapposti). E anche da adulti, non è forse quando cessa d'incanto la furiosa pretesa di monitorarsi, conoscersi, controllarsi, piacersi, che veramente si riesce ad ascoltarsi?
Rimasi molto colpito, anni fa, quando un amico pratico (ma non praticone) di cose orientali mi fece notare come per noi sudditi del Pieno "meditare" significhi concentrarsi fortemente, insomma mandare vieppiù in fuorigiri il motore mentale, mentre in Oriente significa l'esatto contrario, e cioè svuotarsi (appunto) di ogni pensiero e ogni cura. E se volete aggiungerci un giudizio morale, di ogni vanità.
Ecco. Per quanto ci si affanni a provvedere i figli di qualche comfort culturale e psicologico, oltre che materiale, ciò che non riusciamo proprio a donare loro è la forza del vuoto, il privilegio della solitudine, la ricchezza della contemplazione, il lusso impagabile della distrazione. E' una moneta che non abbiamo più, quella. Rassegnati a farne a meno per noi stessi, occupati come siamo, pieni come siamo, ci mancano la maniera e il tempo (il tempo!) di diradare i forsennati ruolini di marcia di questi giovani corpi, e giovanissimi spiriti, di alleggerirne i curricula, di indicare, nella fitta foresta di desideri e impegni nella quale si smarriscono, una qualche radura, una qualche stasi.
Si riuscisse a parlare ancora di politica (se cioè la politica smettesse di farci paura e pena, così come è diventata), sarebbe bello e utile ritentare qualche azzardo ideologico, senza la paura (adulta e vile) di sbagliare ancora l'analisi. Tanto: l'abbiamo già sbagliata così tante volte, che una in più cambierebbe poco.
Si potrebbe pensare che il Sistema, come si diceva una volta, ci impone questa pienezza sconvolta e vanitosa perché ci vuole schiavi del desiderio e del bisogno, consumatori avidi e sempre inappagati (dunque riconsumatori e riavidi). Tutto può concederci e ci concede, il Sistema, tranne la riflessione, l'interruzione, la vacanza vera che non è alle Mauritius né a Cortina ma nella pausa gratuita e oziosa, nei sempre più rari momenti di accordatura, in quella nowhere land che riusciamo a essere quando marchiamo visita e non andiamo, non facciamo, non comperiamo, non vendiamo, non intraprendiamo. Altro che il narcisismo compulsato e frustrante dei consumi: restare in compagnia di se stessi, nel bene e nel male, senza bisogno di alcuna protesi a pagamento, di nessun lifting sociale, solo scialando qualche ora in solitudine, quello sì che è il narcisismo vero.
Quanti dei nostri figli hanno potuto osservare, accucciati come minimi sacerdoti del tempo, una lumaca lasciare la sua scia su un muretto, o una porzione d'ombra allargarsi verso sera, in un cortile? A noi, che crescemmo quando l'Impero del Pieno era solo ai suoi albori imperfetti, quel nontempo venne concesso, e con esso la disciplina preziosa della svagatezza. La tivù iniziava alle ore diciassette. Prima, lo schermo era vuoto e ronzava come un moscone. Non eravamo più buoni, né più cattivi. Non più amorosi né più ribelli nei confronti del padre e della madre. Eravamo uguali identici, adolescenti pieni di dolcezza e ira, di sensibilità e egoismo. Però risparmiati, ancora, da questa leva obbligatoria di massa, che richiama anche i dodicenni e gli undicenni, ormai, ai loro doveri di bravi studenti bravi calciatori bravi nuotatori bravi schermidori bravi internauti bravi danzatori bravi figli bravi indossatori e bravi tutto, dall'alba alla notte.
C'è solo da augurarsi, da aspettarsi, che covi in qualche ragazzino ozioso, in qualche ragazzina distratta, il germe della diserzione. Genitori davvero complici potrebbero coltivarlo, quel germe, dicendo ai figli che il successo è ben poca cosa da sognare, per un figlio. Più ambizioso è sognare, per un figlio, la libertà. Crepi il Sistema del Pieno, cari figli. E cominciate a vivere meglio voi, che ancora siete in tempo, se ancora siete in tempo.