UN DELITTO, DUE VITTIME
Giovedì 7 Febbraio 2002

di LUIGI CANCRINI

DELITTO folle quanto altri mai, l’uccisione del piccolo Samuele sembra suggerire a tutti il silenzio della riflessione. Quella che si sta formando lentamente è l’idea per cui non si dovrà (potrà) partire, da domani, per una caccia al mostro identificato come il cattivo, il lupo delle favole. La difficoltà di scaricare su un personaggio di questo tipo l’aggressività destata dalla paura, dall’orrore della notizia costringe tutti, in vario modo, al dolore di un pensiero più realistico. Il male, suggeriscono i dati, è fra noi e dentro di noi. Ha a che fare comunque, chiunque sia l’autore del delitto, con la tortuosità della mente umana e con la difficoltà di padroneggiarne il funzionamento. Il male, in fondo, emerge continuamente dalla vita e dalla storia dell’uomo: in forma di antitesi naturale e irriducibile ai discorsi sulla solidarietà e sulla ragione, sulla civiltà e sul progresso. Il male, infatti, altro non è che la follia a cui tutti siamo esposti se dentro di noi esso può svilupparsi e prendere forma di azione assurda.


Gli antichi psichiatri descrivevano, in forma di equivalente epilettico, un insieme di comportamenti che si struttura intorno ad una finalità non percepita e non riconosciuta dalla mente cosciente del
l’individuo. Legato all’attivazione parossistica di una zona del cervello, questo insieme di comportamenti si svolgeva in una specie di crepuscolo della coscienza che non lo vedeva, non ne faceva esperienza diretta e tuttavia in qualche modo lo registrava: come un videoregistratore che registra a video spento. Più recentemente, seguendo le tracce della ricerca iniziata da Charcot e continuata da Freud, l’elemento su cui si è centrata l’attenzione degli psichiatri è stato tuttavia un altro, quello legato alla possibilità di dare senso all’insieme di questi atti, collegandoli all’azione di istanze profonde della personalità. Proponendo l’idea per cui, in una situazione di stress vissuta in modo particolarmente drammatico da una persona predisposta in quanto caratterizzata dalla fragilità del suo equilibrio, quella che si determina è una forma transitoria di perdita del contatto con la realtà: quando una pulsione isolata riempie l’intero campo della coscienza bloccando qualsiasi possibilità di valutazione critica delle sue proposte. Come se la coscienza si restringesse intorno ad una necessità immediata e ineludibile all’interno di una situazione simile a quella della trance ipnotica. Dando luogo a comportamenti che vengono registrati in memoria e subito rimossi dalla coscienza che chiude a ponte il prima con il dopo. Lasciando come traccia solo il vuoto relativo al tempo in cui l’azione si è effettivamente svolta. E costruendo, intorno a questo vuoto e alla necessità di mantenerlo tale, un’impalcatura difensiva che attivamente impedisce il dolore del ricordo. Nei termini proposti da Freud, il ritorno del rimosso.

Potrebbe rientrare in una casistica di questo tipo il delitto commesso a Cogne ai danni del povero Samuele? Molte delle cose che si sentono e si leggono in questi giorni fanno pensare di sì. Proponendoci una riflessione sul modo in cui la crudeltà subita da una vittima e lo smarrimento vissuto dall’assassino altro non sono che due facce della stessa terribile medaglia. Proponendoci soprattutto la necessità di guardare con la stessa umana pietà a chi oggi non c’è più e a chi resterà costretto a convivere, per il resto dei suoi giorni, con il ritorno graduale d’una consapevolezza intollerabile o con la perdita progressiva del rapporto con la realtà della sua vita.
Si abbatte su tutti e non risparmia nessuno il vento di una sciagura come quella che si è determinata a Cogne. Lasciando tracce indelebili nella vita e nella coscienza di tutti quelli che ne sono stati toccati. Chiedendo agli altri, quelli che hanno la fortuna di non viverla in prima persona, soprattutto un grande rispetto, gonfio di pena, di silenzio, di solidarietà.