Atti del convegno

 

13. Francesco Maisto

Io sono pronto già da quando sono arrivato, tranne lasciare un momento l'ombrello… Be', il fatto che - entriamo nel vivo del discorso - il fatto che un perito o un collegio peritale formuli una diagnosi di raptus non significa che abbia risposto a un quesito peritale. E questa non è una pura e semplice definizione. Se non si lasciasse chiara la demarcazione tra una diagnosi e la risposta a un quesito peritale, salterebbe una differenza fondamentale tra tutto ciò che è clinico e ciò che è psichiatrico-forense. Senza fare alcun riferimento alla polemica tra la scienza pura e terapeutica e la scienza servente, è però fondamentale mantenere la distinzione.

Il fatto che poi il perito risponda al quesito peritale parlando di raptus, sembra improprio, almeno per quanto riguarda la risposta al quesito. Perché l'argomentazione dell'attività peritale può essere un'argomentazione che fa riferimento al raptus, (e qui concordo con Marta Bertolino quando diceva che la qualificazione di raptus è data specificamente dalla giurisprudenza a quella anomalia che riguarda un quadro epilettoide; si parla appunto di raptus epilettoide o di accesso epilettico); e tuttavia il perito non può terminare dicendo "si è trattato di un raptus", farebbe probabilmente un buon lavoro dal punto di vista clinico, ma certamente dal punto di vista psichiatrico-forense farebbe un pessimo lavoro. Perché la risposta non può che essere se al momento in cui commise quel fatto era da ritenere imputabile perché infermo di mente, e sono le formulazioni tipiche del nostro Codice Penale oppure se le condizioni di salute mentale erano gravemente scemate in modo da richiamare il concetto di semi-infermità. Al di là del quesito ulteriore, e talvolta necessario, in relazione alla pericolosità sociale.

Quindi, il fatto che si parli di raptus non significa, di per sé nell'immediato, andare a ritenere la completa incapacità di intendere di volere al momento del fatto, quindi l'infermità, quindi la non imputabilità.
E non è una composizione a rime baciate, non necessariamente la non imputabilità deve corrispondere a un riconoscimento di raptus.

Davanti alle Corti di Assise, talvolta, pur trattandosi di una situazione definita di raptus, non si è ritenuto che sussistesse la non imputabilità, quindi la persona è stata ritenuta pienamente capace di intendere e di volere. Non c'è dunque alcuna obbligatorietà, al di là della formula curiale che il giudice è "peritus peritorum". Questa è una prima risposta ai quesiti che poneva il dottor Aparo.

Devo anche dire che io concordo pienamente con la definizione e con lo schema che ha dato Marta Bertolino, sia del raptus che delle reazioni a corto circuito. Naturalmente nella giurisprudenza di legittimità non è accolta la formula "acting out", per il semplice buongusto che i cosiddetti gallicismi, di cui si parlava una volta per designare ogni introduzioni di termini stranieri nelle nostre sentenze, non dovesse essere accolta. Quindi nella Giurisprudenza di legittimità, cioè nelle massime della Corte di Cassazione non troverete mai l'"acting out", che pure esiste.

E' vero però che quel discorso che faceva Marta è un discorso diciamo "epurato", o meglio "puro", ed è quello della purezza delle formule magiche della scienza giuridica. E' un discorso che appare, come lei lo faceva, in modo univoco. Il che naturalmente, non è. Perché quel discorso non ha avuto, sul piano della storia della giurisprudenza della legittimità, un andamento lineare e preciso, ma ha avuto dei movimenti di andata e ritorno.

Io indico, per esempio, un punto di maggiore o un anno di maggiore amplificazione del concetto di reazione a corto-circuito nella giurisprudenza di legittimità, che è stato il giro di una stagione, il 1994; perché immediatamente dopo, nel 1995, la Corte di Cassazione fece un passo indietro in relazione alle reazioni a corto circuito, nel senso che poco dopo la prima, innovativa sentenza con la quale aveva definito come reazione a corto circuito "l'inattitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per una condotta adatta al motivo più ragionevole" ritornò indietro, negando che la reazione a corto circuito potesse incidere sulla imputabilità, a meno che non costituisse una manifestazione di malattia e quindi si inquadrasse in una pre-esistente alterazione psicologica.

E c'è un andamento oscillatorio nella Giurisprudenza, anche perché purtroppo queste formule "pure" di legittimità riescono ad essere poche, perché pochi sono i casi che arrivano davanti alla Prima Sezione della Corte. Bisognerebbe riuscire a massimare tutta la Giurisprudenza di merito rilevante su questo punto, ma credo servirebbe a ben poco anche perché sarebbe difficilmente da massimare, tenuto conto della varietà, apprezzabile o poco apprezzabile, del linguaggio giuridico che viene usato nelle sentenze delle Corti di Assise su questi problemi.
Ecco, però il dottor Aparo, invitandomi a rispondere, mi faceva perdere il punto…


BERTOLINO

Non volevo dare l'impressione di ritenere univoca l'interpretazione. Nell'81 ho parlato di crisi del concetto di imputabilità, e ho parlato dei differenti paradigmi interpretativi dell'infermità. Ho detto, quando ho concluso il mio intervento, che bisogna vedere poi se le reazioni a corto circuito siano riconducibili al concetto di infermità (e allora si può dare spazio, ma dipende da quale concetto di infermità assumono la Giurisprudenza e i giudici, in quella occasione, oppure se c'è la norma di sbarramento degli stati emotivi e passionali). Da qui le diverse oscillazioni, e se vorremo affrontare questo tema, dovremo affrontare - come penso inevitabile - cosa si intende per infermità di mente.

 

MAISTO

L'altro punto, quello relativo alle condizioni che in qualche maniera possono rendere situazioni scatenanti l'atto, io devo dire che non sono rimasto molto colpito dai recenti fatti di cronaca, perché ho avuto la possibilità di ripensare un po' ai diversi contesti rispetto agli Anni '70 e di ripercorrere un po' la mia esperienza giudiziaria.

Vero è che la situazione attuale, a causa dei mass media è tale per cui c'è un'amplificazione, lecita, e un allarme, giustificato; credo che, però, se si facesse una ricerca dei casi in cui si è diagnosticato e qualificato "raptus" il gesto di minori tra i 14 e i 18 anni di età tra gli anni 1974-80 nel territorio del distretto della Corte di Appello di Milano, verrebbero fuori una quantità di situazioni, apprezzabili anche statisticamente; (voglio dire cioè in una situazione del Paese in cui le preoccupazioni e le tensioni erano canalizzate su altri rilevanti e grossi fenomeni sociali); nell'Alta Brianza i casi di parricidio, in comunità chiuse, e cioè in contesti di origine calabrese estrapolati e portati completamente in Alta Brianza, sono stati tali e tanti da farci accapigliare, con fior fiore di relazioni di psicologi dell'Istituto Beccaria di allora e di psichiatri (alcuni attualmente in cattedra anziani, altri purtroppo… ci hanno abbandonati, nel senso che sono defunti) che veramente mettevano in evidenza come ci fossero delle condizioni scatenanti l'"acting out", cioè contesti chiusi o come contesti territoriali o come contesti di chiusura mentale (scusate la volgarizzazione del termine).

In altri termini, quelle situazioni di parricidio in famiglie, (mi viene lo spunto che viene dall'ascolto che stavo facendo dell'intervento del professore Stella), non sempre univocamente è da pensare che bisogna nostalgicamente pensare a quella famiglia che è andata…perché è in quasi sempre tutti quei casi che prendevamo allora in considerazione, in quei processi che istruivo… insomma il Tribunale per i Minorenni di Milano si era trasformata in una Corte di Assise per i Minorenni, all'epoca… lì la famiglia ha avuto un grosso ruolo…altro che il parricida minorenne che non ha avuto un supporto dalla famiglia… Lì era la classica "famiglia che uccide". Non per usare la formula del famoso libro di Schatz. Quindi, attenzione a questa affermazione insistita sulla famiglia, che laddove sia o chiusa territorialmente o abbia degli orizzonti mentali chiusi, può portare alla reazione scatenata, proprio per evitare di essere uccisi. In qualche modo una legittima difesa.
Io non so, gli interventi di Aparo mi hanno portato fuori tema, e sono andato fuori tema. Io avrei finito…