Da Avvenire 25 giugno 2001


Amici laici, rivalutiamo l'antico senso di colpa

L'antitesi tra libertà assoluta e limiti da rispettare

Vittorino Andreoli

Il senso di colpa è una sensazione di malessere che uno prova di fronte alla constatazione di essersi comportato in modo differente da quanto avrebbe voluto. Lo scarto tra il comportamento attuato e quello voluto, o desiderato, misura la intensità della colpa.

L'attuale cultura ha combattuto il senso di colpa proprio perché posto all'origine di un dolore, che è sempre un vissuto penibile e negativo. Vi hanno contribuito le psicologie che lo hanno indicato come una limitazione della libertà e quindi come un freno al comportamento e alla sua ampia possibilità di espressioni. La colpa è stata vista come una mina all'autostima che è fondamento della fiducia e della possibilità di proporsi attivamente nella società, invece che ritirarsi come si fosse indegni di esserne parte.

In questo senso la cultura del tempo presente si pone in antitesi a quella religiosa in genere e cattolica in particolare, che parla persino di colpa originaria, legata all'appartenenza alla specie.

Una contrapposizione, dunque, tra la "cultura per la liberazione dalla colpa" nei confronti di una "cultura della colpa" centrata sul riconoscerla, confessarla e espiarla. Antitesi tra libertà da ogni limite e indicazione dei limiti: comandamenti e precetti. Da un lato: non esiste nulla che debba far sentire in colpa, dall'altra l'esistenza del male e del peccato come premesse alla colpa. Da una parte lo strumento della psicoterapia per liberarsi dalla colpa e da suoi residui e dall'altra la confessione che è contrizione e richiesta di perdono, ma anche impossibilità di guarire a meno di non cadere nella superbia. La confessione chiede aiuto a Dio, la psicoterapia si fonda sull'uomo esclusivamente.

Basterebbe questo semplice confronto a togliere di serietà a ogni tentativo di assimilazione della confessione ai trattamenti psicoterapici.

Siamo in realtà convinti che il senso di colpa sia un meccanismo originario o primario e dunque sia stampato nella nostra biologia, che si tratti insomma di uno "strumento di bordo" essenziale a guidare il comportamento. Se è una "categoria della mente" non significa che siano stampati anche i comportamenti ideali o errati, il bene o il male. E' la storia, e dunque ogni società, a fondare il proibito e il concesso.

Una categoria analoga al "principio di non contraddizione": un contenitore per differenti argomenti o "oggetti" del pensiero. Il senso di colpa lo troviamo in tutti, ma diversissimo è l'oggetto che lo attiva.

Pensiamo anzi che non esista alcun contenuto immutabile, nemmeno l'uccidere: è piuttosto un dato acquisito, come dimostra l'insistenza sul "non uccidere" (il quinto comandamento dato a Mosé), e la constatazione che l'uccidere ha sovente un sapore titanico, capace di dare soddisfazione e far sentire eroi. Si potrebbe aggiungere che in certe occasioni, e in guerra, diventa persino un comportamento di eccellenza.

Si aggiunga che gli "oggetti" che attivano il senso di colpa mutano rapidamente. Nella nostra società - ad esempio - sono totalmente spariti l'"infedeltà" e il "rubare", non solo non attivano il senso di colpa, ma sono ritenute strategie vincenti fino all'ipotesi che l'infedeltà sia mezzo di stabilità familiare, dal momento che stando con l'amante l'infedele è più sereno e riesce a vivere meglio anche i conflitti familiari.

Oggetti nuovi e tremendi della colpa, nella cultura presente, sono: il non aver seguito "la dieta" e "l'aumento di peso".

È' indubbio che esistono criteri educativi che possono esasperare la colpa e dunque creare la paura di non riuscire a seguire gli imperativi, fino al blocco dell'azione. L'ossessività è un comportamento di difesa per evitare la colpa: si cerca di ridurre al minimo le azioni proprio per diminuire le occasioni di peccato e si giunge alla convinzione di andare sempre fuori norma: non ci si muove più e come una statua si evita anche di pensare.

Occorre ammettere che in passato l'educazione cattolica ha stigmatizzato eccessivamente alcuni comportamenti (peccati), fino a magnetizzarne la mente, con la paura di commetterli. Mi riferisco agli imperativi sulla sessualità, giunti ai pensieri "cattivi". Il risultato è stata la induzione, appunto, della ossessività che i confessori conoscono meglio sotto il termine di scrupolosità.

Proprio la sessualità è stato un oggetto di contrapposizione chiara tra psicoterapia e confessione: per la prima ognuno deve esprimere la sessualità come vuole, nel rispetto dell'altro, per l'educazione cattolica, invece, certi comportamenti sono proibiti e altri diventano permessi soltanto in condizioni di relazioni particolari, come nell'unione matrimoniale. Una contrapposizione che ha visto il trionfo negli ultimi decenni delle psicologie.

Questo momento storico si caratterizza per un "senso di colpa vuoto" da tutto ciò che riguarda l'altro e dalla propria dimensione psicologica e spirituale. Barche con un sistema di controllo che si è dimenticato dei pericoli maggiori, dei venti o delle tempeste, mentre segnala peccati relativi alla carrozzeria, l'esteriorità.

Giovani che non sentono colpa per azioni di mancanza di rispetto e di violenza verso il "prossimo". Che ridono all'idea di poter investire una vecchia e scappare con la moto senza dover essere infastiditi dalla polizia . Nessuno si sente in colpa per non occuparsi di un bambino picchiato, come se non lo riguardasse. Non ci si ferma nemmeno per assistere una persona che sta per essere stuprata da un bruto. E' qualcosa che non entra nel senso di colpa centrato esclusivamente sul nostro Io.

E così viviamo in una società piena di Io, incapace di usare il Noi: un pronome senza significato. In questo clima impera l'etica della circostanza, per cui non esiste nulla di proibito sempre e di doveroso in ogni caso, ma tutto è possibile, dipende solo da quando e come. Il comportamento senza alcun limite. Gli altri, il prossimo, sono solo delle occasioni, delle decorazioni che non impongono alcun dovere: nemmeno i genitori.

Sembrerà paradossale che uno psichiatra auspichi un'educazione delle proibizioni e dei limiti, che ritenga che nessuna norma può venire applicata se non si lega ad una severa punizione, sia pure contenuta nel rispetto umano e negli scopi educativi: finalizzata all'apprendimento e quindi ad un senso dell'amore.

Sono convinto - da non credente - che il peccato, sia pure civile e legato a questa terra, debba esser difeso e applicato con coerenza e, per questo, da autorità fondate sull'esempio e sulla credibilità.

Una società che non sia in grado o abbia paura di proporre degli imperativi, è destinata ad abbandonare i propri figli. Un conto è lasciare la libertà di esperimentare e di formarsi una visione del mondo che tenga conto dei tempi, un conto è il lasciar fare. Un permissivismo del disimpegno: poiché non vi è dubbio che è meno faticoso abbandonare che educare. L'educazione a qualsiasi livello presuppone una relazione e un legame affettivo, sia pure differenziato a seconda che si svolga in famiglia o a scuola, in parrocchia o in una associazione sportiva.

Una società che tema di mettere dei limiti, è priva di senso di responsabilità, manca di principi. I principi devono confrontarsi e magari combattersi,il dramma è una società di padri che non ha nulla da proporre e per i quali tutto va bene o male in rapporto al fastidio che può dare l'uno o l'altro in quel momento o su quello stato d'animo. Insomma serve un codice di comportamento per la vita civile, dei comandamenti per la vita sociale con relativo senso di colpa quando non si sono seguiti e una pena che tenda a ricordare il dovere e aiutare a seguirlo.

Senza senso di colpa e senza che venga riempito di imperativi, non è possibile alcuna vita in comune, a meno di non sentirsi appesi tutti ad un filo che sbatte senza alcuna direzione fino a strapparsi fatalmente. Naturalmente, lo ribadiamo, c'è una modalità che possiamo definire educativa nella costruzione di questo codice e altre che invece non lo sono, sia per eccesso, in quanto inducono scrupoli e ossessività, sia in difetto, in quanto lasciano il senso di colpa privo di ogni contenuto e senza punti di riferimento forti.

Nel mio Delitti (Rizzoli 2001) ho raccontato i casi di giovani della cronaca estrema di questi anni. Ragazzi che hanno ucciso e in nessuno di loro c'era il senso di colpa prima di ammazzare e nemmeno dopo averlo fatto. Il pentimento è sovente solo una strategia di difesa, una affermazione per ottenere dei vantaggi secondari sulla pena. Anche generosi e ingenui sacerdoti parlano spesso di ragazzi omicidi pentiti, più realisticamente si tratta di persone che "affermano di esser pentite". I casi estremi sono caratterizzati da un "senso di colpa vuoto" per il rispetto della vita.

Voglio idealmente parlare di un libro non scritto, in cui raccontare di tutti quei giovani che temono di mancare di rispetto all'altro, che hanno interiorizzato la norma di non uccidere mai, nemmeno i nemici. Di quei giovani che hanno capito che la vita è un mistero da osservare con interesse e gioia, anche se alcune volte sembra aver poco di umano. Di tutti quei ragazzi che non ritengono mai che la parola uccidere possa essere pronunciata e quindi sono contro la pena di morte e contro la guerra quale salvacondotto per ammazzare. Di chi va allo stadio stando attento a non fare del male, perché basta poco per ammazzare. Non servono i coltelli lunghi, è sufficiente un coltellino che fa punte. Un libro dove si parli di giovani che non usano la violenza, che magari chiedono aiuto a qualcuno per esser più calmi e più tolleranti: lo chiedono a persone di cui hanno fiducia o a un Dio in cui credono.

Insomma mi piacerebbe dedicare un libro a loro, a questi sconosciuti che non fanno cronaca, ma che lasciano ancora sperare in un mondo che permetta all'uomo di usare le mani per accarezzare invece che per soffocare e uccidere. Dedicarlo a tutti coloro che non sono corsi su Internet per inviare a Erika un messaggio di stima e d'amore, ma semmai per dirle: «Cara Erika, ti sono vicina e mi piacerebbe venirti a trovare per parlarti del mio senso di colpa, che mi limita poiché non mi permette di fare ogni cosa, ma mi impedisce di uccidere mio fratello anche se talvolta mi fa arrabbiare. Sono triste nel pensare che se anche tu avessi elaborato un senso di colpa (ed educata ad esso), oggi non saresti famosa e infelice, ma anonima e serena».