Che gioia a Carate! | |
Livia Nascimben | 25-02-2004 |
Oggi, un viaggio affascinante tra le emozioni; un viaggio che ho vissuto e mi sono goduta.
Una tappa, quella di oggi, che voglio condividere anche coi detenuti rimasti in carcere, ma presenti come gruppo e come singole persone di cui porto dentro aspettative e obiettivi comuni.
Prima dell’incontro ero tesa, non avevo preparato nessun documento scritto, anche se sapevo di avere lavorato molto in questi mesi al gruppo e la relazione che avevo di Enzo mi rassicurava.
L’incontro è cominciato con una decina di minuti di ritardo, Aparo era andato a prendere Ivano a Corbetta, in permesso per qualche giorno, e avevano trovato traffico. Seguivo con curiosità chi prendeva la parola e mi divertiva vedere come il prof. “convinceva” gli alunni a farsi avanti. Sono stata bene fino a quando non ho cominciato a sentire che forse non avrei trovato la forza per intervenire. E questo mi faceva arrabbiare.
Ascoltavo gli altri e li invidiavo, loro parlavano mentre io ero rigida sulla sedia! Aspettavo che mi venisse in mente qualcosa di bello da dire, qualcosa che mi sembrasse appropriato, che mi permettesse di espormi senza fare brutte figure, ma il tempo passava ed io ero sempre più rigida. Mi dicevo: “Pazienza, se non parli a questo incontro lo farai al prossimo.” Ma stavo male e credevo che la giornata si sarebbe evoluta, come tante altre volte in passato: avrei desistito da ogni tentativo, ma poi ne avrei sofferto e l’avrei pagato in qualche modo.
Poi il prof mi ha messo il microfono in mano, chiedendomi di parlare dei miei sogni infranti e poi recuperati. Sì, l’argomento lo conosco, ma come lo dico? Come dico che il lavoro col gruppo l’ho utilizzato per ricomporre un mio sogno perduto? Sento gli attimi di silenzio lunghi un’eternità. Comincio a parlare, mi sento insicura, tremo, mi rivolgo ad una studentessa della scuola che si era appena rifiutata di prendere la parola e le parlo di me e di come io mi riveda in lei, timida, impaurita e decisa a non espormi, ma per questo anche in conflitto, bloccata tra paura e desiderio.
Quella ragazza, Amerilda, aveva chiesto ai detenuti ed ex detenuti presenti all’incontro perché fossero finiti in carcere, e io le ho parlato di me, della mia galera privata. Quella domanda l’ho sentita rivolta a tutti, non in particolar modo a Ivano o a Pippo, Ernesto o Romeo: le mura del carcere sono la rappresentazione di difficoltà e di limiti di ognuno, ma anche dell’ostacolo da superare, e questo concetto delle mura come metafora della natura dell’uomo, caratterizzata da separazioni che bloccano e dalla spinta a superarle, è uno degli assunti del gruppo.
Aparo mi chiede come sia uscita dalla mia prigione. Rispondo: “con un microfono in mano! Sfidando le mie paure e accettando il rischio di sbagliare”. Torno a sedermi ma non sono soddisfatta, mi sento scombussolata. Facciamo una pausa, fuori comincio a sentirmi libera, a provare l’emozione della conquista.
L’incontro procedeva; l’obiettivo era di intrecciare ideali, fantasie, paure di ciascuno con il lavoro del gruppo della trasgressione e prendere confidenza col parlare in pubblico in vista del convegno di fine anno. Si parla del confronto e del guadagno di detenuti e studenti, di sogni che vengono persi e poi rimessi in piedi, di maschere che nascondono e insieme presentano, del piacere di sentirsi come sarti con ago e filo a cucire parti diverse di realtà per raggiungere i propri ideali, senza dovere ricorrere a comportamenti devianti o al limite del lecito per percepirsi vivi e sentire di potere contribuire a trasformare il mondo.
Aparo sottolinea come l’individuo debba tenere conto degli elementi della realtà per orientare i propri ideali: “nella realtà ci sono i mattoni, nella testa gli ideali; gli uni sono indispensabili agli altri; gli ideali senza i mattoni si trasformano in deliri, i mattoni senza ideali restano materia inerte”. E questo concetto lo sento straordinariamente importante per avere una direzione da seguire: quando non scelgo o non parlo perché non sento il mio intervento adeguato, tengo conto solo dell’immagine di perfezione a cui mi ispiro e rimango ferma; mentre quando accetto di essere imperfetta e mi espongo, scopro di contribuire alla trasformazione della realtà e guadagno uno spazio d’espressione maggiore.
Oramai sono divertita, mi sento protesa verso gli altri e meno propensa a stare concentrata su me stessa. Gli studenti di Carate mi sembrano meno intimiditi, mi piace osservarli, ascoltarli e cercare di sintonizzarmi sulle loro emozioni.
Scopro una Rossella diversa, che mi commuove, che parla delle sue imperfezioni e desideri di rinnovamento; Patrizia mi sembra particolarmente luminosa, forse avrà fatto bene anche a lei prendere il microfono in mano; Marta è dolce e profonda come sempre; Cosimo appare sereno e dà fiducia; Alice non la vedo, è seduta lontano e non parla, però è ben presente dentro di me, il mio sogno infranto ho cominciato a ritesserlo con il nostro intervento al convegno sulla sfida in carcere e mi sento in debito con lei; Margherita è dalla parte opposta alla mia, ogni tanto ci sporgiamo dalla fila e ci guardiamo; Antonella è seduta accanto a me; Sara interviene in modo preciso, sembra una professoressa, poi parla di una sua esperienza personale e intenerisce tutti. Di Romeo, Ernesto, Ivano e Pippo mi colpiscono le emozioni che riescono a trasmettere, Ernesto con la sua profondità, Ivano con la semplicità e schiettezza che lo caratterizzano, Romeo con le sue riflessioni attente e vissute, Pippo con la determinazione a comunicare con i giovani, come in un sogno, e il rischio di sbagliare; Giovanni, spettinato, lo sento abile nel parlare con i ragazzi della scuola con il loro linguaggio e Silvia intenta ad appuntare ogni singolo intervento (ma poi la relazione la farà?).
Insomma, ci siamo tutti, dentro e fuori. Sento la vita attorno! E’ proprio bello sentirsi vivi! Alla fine dell’incontro l’ho detto ad Ivano, la persona che più sentivo potesse, in quel momento, capire quanto si possa essere alle stelle passando dall’oppressione all’aria fresca.
Abbiamo mangiato una pizza insieme, abbiamo brindato a Ivano libero e la conquista di microlibertà personali e del gruppo. Siamo stati insieme qualche ora, poi ci siamo salutati. A Milano abbiamo incontrato Umberto, assente in mattinata per questioni di lavoro, gli abbiamo raccontato tutto e lui ci ha parlato di sensazioni riscoperte. Ernesto e Umberto si sono abbracciati, si erano conosciuti a San Vittore e non si vedevano da un anno: una splendida immagine in una giornata ricca di emozioni.
Certo, la forza e i risultati sono da consolidare, però che gioia!