San Vittore al centro |
Samuele Cafasso | 26-03-2004 |
San Vittore fa discutere
Mentre si parla di spostare fuori città il carcere di Milano, volontari e addetti ai lavori si interrogano sul significato della detenzione. Ci devono essere contatti tra carcerati e cittadini? Che ruolo ha la società nella rieducazione?
Fuori o dentro la città. Il carcere di San Vittore ha fatto e fa discutere la cittadinanza e la politica milanese. Il dibattito si è riacceso a ottobre dello scorso anno, quando il progetto di trasferimento ha diviso la maggioranza di centrodestra a Palazzo Marino, sindaco Gabriele Albertini e Lega da una parte, resto della maggioranza dall’altra. Per il sindaco lo spostamento è un fatto di funzionalità: si parla di costruire una struttura edilizia che integri tribunale e carcere (‘la cittadella della giustizia’) per rendere più agevoli gli spostamenti dei detenuti.
Ma tra chi si oppone allo spostamento, parallelamente alle accuse al sindaco di voler sgomberare San Vittore solo per l’alto valore dei terreni sfruttabili per l’edilizia (ma finché non verrà rimosso il vincolo di tutela architettonico, come invoca il vicesindaco, non sarà possibile abbattere l’edificio), si affaccia una polemica più sottile ma forse più decisiva: lo spostamento del carcere non è forse la metafora della volontà di sottrarre il tema del carcere all’attenzione dell’opinione pubblica? Don Alberto, cappellano del carcere, lo dice chiaramente: “spostarlo vorrebbe dire negare un pezzo della città che ci appartiene, un luogo di estremità dove il bene e il male convivono”.
Dietro il problema delle sedi carcerarie un altro tema più grande e inquietante si impone: allontaniamo il carcere da noi perché è difficile dargli un significato?
I simboli contano infine, se lo spostamento di San Vittore fa parlare tanto. Forse è stato come aprire il tappo di una bottiglia troppo a lungo agitata: oggi le carceri difficilmente adempiono ai loro compiti e per chi sta fuori è difficile dare un senso a questa realtà, molto più facile ignorarla. Ma è anche molto difficile, forse troppo, fare finta che non ci riguardi, se è vero che l’impulso alla trasgressione riguarda in fondo ognuno di noi, e per questo bisogna essere capaci di farci i conti. Le prigioni sono al centro quindi, per capire se vanno cambiate, come, che significato e ruolo hanno oggi (se ne hanno ancora uno ben determinato) e quale potranno avere in futuro.
“Il carcere? Va cambiato perché possa svolgere il suo ruolo educativo”
dialogo con Francesco Cajani.
“Il carcere oggi è uno spazio vuoto dove non è possibile fare educazione”. Francesco Cajani ha le idee chiare su cosa è in concreto la prigione e su come invece dovrebbe essere. Laureato in giurisprudenza, si è occupato per la sua tesi del ruolo rieducativo delle misura cautelari nei confronti dei minorenni. Ruolo rieducativo che, risulta dal suo studio, è del tutto disatteso. Come, a suo dire, manca oggi nel carcere.
Forse anche per questo al tema dell’importanza della rieducazione dei detenuti dedica una parte del suo lavoro di volontario nell’Agesci, l’associazione italiana degli scout cattolici.
“Cerchiamo” dice, “di dare ai nostri ragazzi dell’associazione gli strumenti per capire una realtà che oggi molti ignorano, preferiscono non vedere”.
Pensi che la questione dello spostamento del carcere nasconda la volontà, forse inconscia, di eliminarlo come argomento del dibattito pubblico?
Non credo che il problema sia questo. Il carcere c’è o non c’è a seconda che tu lo voglia vedere o meno. Lo elimini dalla testa, non dalla città. Molti si accorgono della sua esistenza solo quando ci finiscono dentro o ci sono coinvolti delle persone a loro vicine.
Quali sono le ragioni dello spostamento allora?
Ci sono delle motivazioni funzionali che, come cittadino, in parte capisco. Portare i detenuti dal carcere al tribunale e viceversa per esempio è un problema, se fossero nello stesso edificio sarebbe più facile. E poi le carceri come sono oggi non adempiono alla loro funzione.
Cioè?
Si investe poco in educazione, e talvolta le strutture sono fatiscenti. Non è che chiediamo il lusso nelle celle, a volte su questo punto le richieste dei detenuti sono eccessive, però qualcosa bisogna fare. Ma soprattutto va investito in educazione, perché questo è il vero compito degli istituti di detenzione. Basti dire che in molti escono dalla prigione con la convinzione di avere subito un’ingiustizia e di non avere compiuto in realtà alcun delitto.
Quali attività potrebbero essere utili in questo senso?
Ciò che fanno alcuni volontari oggi è significativo. Come le attività del gruppo della ‘trasgressione’ che porta parte della società milanese a San Vittore, o il giornale ‘Il Due’. Si tratta di far dialogare il carcere con chi sta fuori, con il mondo nel quale poi dovranno ritornare. Anche a questo serve far incontrare i giovani della mia associazione con i detenuti. In fondo l’educazione segue delle strade misteriose, non sappiamo quali scelte, quali esperienze ci porteranno domani a fare le scelte che faremo”.
“Ma i detenuti cosa hanno di diverso da noi?”
I dubbi di un gruppo di ragazzi in visita a San Vittore.
Sabato 13 marzo era una giornata primaverile forse troppo piacevole e soleggiata per entrare in prigione. Dopo essersi incontrati per la prima volta due ore prima, 30 ragazzi si sono incamminati verso Via Filangeri, dove si sono fermati in cerchio a discutere un poco prima di entrare. Poi si sono incamminati: ad accoglierli un metal detector, la consegna della carta di identità e una lunga serie di cancelli e portelloni che gli si aprono davanti e, subito dopo, si chiudono alle loro spalle.
Impiegare un sabato pomeriggio dei proprio 18-20 anni per visitare un carcere, questo è sicuro, non è una scelta banale. Da due anni però Francesco Cajani, come educatore del gruppo degli scout cattolici italiani, non ha certo problemi a trovare i 30 scout lombardi che partecipano a questa iniziativa organizzata insieme al gruppo de ‘Il Due’ e quello della ‘trasgressione’.
“Credo”, dice Francesco Cajani, “che facciano questa scelta perché vogliono conoscere realtà di confine di cui si sa poco. In effetti il nostro obiettivo non è dare dei giudizi, ma strumenti per farsi un’idea più esatta”.
Attraverso le parole di chi c’era e le testimonianze lasciate sul sito del gruppo ‘trasgressione’ dai partecipanti si può ricostruire un incontro nel quale gli scout, in cerchio insieme ai detenuti, non avevano uniformi e fazzolettoni che li distinguessero dagli altri presenti, per poter discutere indipendentemente dalle biografie personali di ciascuno.
Insieme hanno parlato per quattro ore della sensazione di libertà. Libertà quando “sento di realizzare i miei sogni”, libertà quando “riesci a esprimerti in carcere”, libertà “quella volta che ho mandato tutto a puttane”, o “quando mi sento protetto”, e molto altro ancora.
Lasciati in un angolo i racconti dei loro sbagli e i motivi per cui si trovano in carcere, i detenuti hanno lasciato ai ragazzi soprattutto una sensazione: che in fondo siano uguali a loro, che il carcere sia un luogo ‘normale’. “Effettivamente” dice Francesco Cajani, “il rischio è quello che i ragazzi perdano di vista i motivi della pena che i detenuti stanno scontando. Per questo durante il dibattito stiamo molto attenti a bilanciare le loro lamentele e rimostranze ricordando che stanno pagando dei loro sbagli”.
E se prima la prigione era una realtà sconosciuta, la distanza si annulla completamente dopo l’incontro: “una cosa che mi ha colpito molto è stato il non riuscire a distinguere un detenuto da un esterno” dice infatti un ragazzo sul sito della ‘trasgressione’. Il carcere raccoglie persone uguali a noi, sembrano dire i ragazzi, e quello che risalta di più è l’ingiustizia di un’istituzione che, pensata per rieducare, non è capace di assolvere il suo ruolo.
“Incontrare i detenuti e scoprire cosa c’è di buono nella trasgressione”.
Dialogo con lo psicologo Angelo Aparo
Angelo Aparo ha trascinato molte persone in prigione. Ma non è un giudice, e sospettiamo nemmeno voglia esserlo. È invece un psicologo con l’idea fissa che la società ‘di fuori’ abbia il dovere di dialogare con chi sta chiuso dentro le prigioni, e che anche da pulsioni negative come quelle che portano alcuni a trasgredire le regole possa nascere qualcosa di buono. Per questo ha fondato il gruppo della ‘trasgressione’, una pulsione che forse non sempre va guardata con sospetto. Nato nel 1997, questo gruppo ha portato in carcere, nel corso degli anni, molti ospiti: medici, giuristi, giornalisti, religiosi, artisti, gente dello spettacolo.
Oggi il gruppo dei carcerati (circa 20) è stato integrato da una dozzina di studenti, la maggior parte dei quali è stato allievo di Angelo Aparo al corso di ‘psicologia della devianza’ dell’Università Bicocca. Insomma, il progetto cresce e il suo fondatore ne è evidentemente fiero: “sa quale è il mio divertimento? Aver costruito un motore che va con gli avanzi. Oggi il gruppo della ‘trasgressione’ fa cultura con individui che dalla società sono considerati agenti di danno. Come effettivamente sono”. Il punto di partenza, come risulta scritto nel sito, è guardare al concetto di trasgressione con uno sguardo un po’ più curioso di quello che si ha solitamente: c’è trasgressione anche quando un uomo si accorge che “i codici espressivi, le regole sociali, i criteri scientifici elaborati in precedenza non gli garantiscono più lo spazio sufficiente per esprimersi e per operare nella realtà fisica e sociale attuale”. E quindi la trasgressione può essere anche creatività. “Si tratta”, dice Aparo, “ di trasformare rabbia e distruzione in sentimenti positivi”.
Ma i risultati di questo lavoro ci sono, oppure è solo una teoria? Gli studenti coinvolti affermano di sì, che il confronto coi detenuti li ha arricchiti, che mettendo insieme le esperienze di ognuno si scopre che gli impedimenti a realizzarsi ci sono per tutti, e che da una relazione di questo genere il guadagno è reciproco. Aparo la chiama ‘gestazione reciproca’. In concreto è un muro che cade, nei confronti dei detenuti e nei confronti di una cultura che vede la trasgressione delle regole come qualcosa di alieno da noi, estraneo.
Uno dei concetti che i suoi studenti citano più spesso è il cercare elementi comuni a diverse esperienze provate da chi sta dentro e chi sta fuori San Vittore: “il professore” dice uno di loro, “sostiene che mettere insieme le nostre e le loro imperfezioni ci permette di costruire qualcosa assieme”. Questo nonostante, cosa che sanno sia gli studenti che il professore, il loro progetto può essere guardato con sospetto da una società che non pensa certo ai detenuti come persone con cui crescere assieme: “ma noi non siamo dei giudici”, dice uno degli studenti, “e coi detenuti non parliamo nemmeno dei motivi per cui stanno dove stanno. Il nostro compito non è giudicare i loro sbagli”.