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Parliamo del vuoto, cominciando dal pieno

Margherita Macis

Sabato notte, quando sono tornata a casa, ho provato uno strano senso di frustrazione per non essere stata in grado di comunicare come avrei voluto con i ragazzi venuti a Milano per vivere insieme a noi a San Vittore un momento di scoperta e riflessione.

Forse la mia incapacità di avvicinarmi spontaneamente a loro è stata condizionata dall'imbarazzo, o dal fatto che mi ero convinta che ci percepissero "lontani".

Nonostante le ore in carcere, la cena insieme e la serata tra giochi e canzoni, solo domenica pomeriggio c'è stato quel contatto da me tanto atteso!

Seduti per terra, sotto uno splendido sole nel cortile dell'oratorio della parrocchia di San Vittore, abbiamo formato piccoli gruppi; il compito di ognuno di noi era di stimolare i ragazzi (rispondendo alle loro domande ed invogliandoli a riflettere), affinché descrivessero pensieri ed emozioni per fornire anche materiale utile come "restituzione" ai detenuti, in base a quel che era rimasto loro dei momenti vissuti il giorno precedente.

L'esperienza del Workshop è stata bella e credo sia stato centrato l'obiettivo: in prima persona mi sono sentita, e mi sento, nutrita di nuove emozioni e ulteriori informazioni.
Il "gioco dell'oca" organizzato dalla redazione de "Il due" ha offerto agli scouts, digiuni di dati precisi riguardo al carcere, alcuni scorci della vita che al suo interno si conduce.

Di solito noi studenti vediamo i detenuti lavorare e riflettere insieme, mentre in questa occasione i discorsi hanno preso una piega inaspettata ai nostri occhi. Attraverso le tappe del percorso carcerario discusse grazie al gioco, sono emersi prevalentemente due dei tanti temi cari ai detenuti: il disagio e la sofferenza.

Ultimamente alle riunioni del gruppo ci si interessa anche di comprendere a pieno il concetto di "responsabilità"; speravo che questo tema venisse fuori già nel corso del gioco; in fondo il lavoro su questi temi appartiene oramai ai detenuti del gruppo non meno dei risvolti carcerari di cui hanno raccontato attraverso il gioco.

Nonostante queste considerazioni comprendo molto bene che sia fondamentale per i detenuti parlare della sofferenza, della freddezza e della monotonia delle loro giornate; capisco l'esigenza manifestata da Biagio quando dice di voler mostrare a tutti che in carcere non si sta bene, e che nemmeno quando si esce è facile. Tuttavia, mi trovo più in sintonia con Gianni quando gli sento dire che a suo avviso "i visitatori attenti vedono la sofferenza negli occhi di chi è ristretto in carcere anche senza prendere visione delle celle"; "la sofferenza -dice Gianni - si vede anche se il detenuto è una persona sorridente e comunicativa".

D'altra parte, la disinformazione sulla vita quotidiana in carcere ci ha portati, successivamente, a discutere su come sia opportuno procedere: da un lato informare le persone libere che entrano a San Vittore anche delle condizioni di vita nel carcere, dall'altro lasciare solo intuire questi dettagli, continuando a trasmettere all'esterno soprattutto la voglia di costruire qualcosa insieme.

Credo di avere ormai ben chiaro che ogni componente del gruppo ha piena coscienza di quel che ha fatto e del percorso che l'ha portato in carcere; so che tutti sanno riflettere sulla propria responsabilità ma capisco che, vivendo in condizioni di privazione, diventa prioritario trasmettere stralci di vita quotidiana che hanno inevitabilmente uno sfondo emotivo molto forte. Penso però che, per il cittadino comune, la denuncia sui mali del carcere può risultare più impattante e responsabilizzante quando a farla è lo stesso direttore del carcere.

E' anche vero che gli argomenti toccati durante il pomeriggio hanno risposto anche a mie curiosità inappagate sin dal primo ingresso a San Vittore, come ad esempio il tipo di accoglienza verso un nuovo compagno di cella o qualche spaccato sui reati commessi.

Ho vissuto il timore che ai boy-scout potesse rimanere solo il ricordo del carcere e non la personalità dei detenuti, mentre il mio desiderio era che venissero catturati dalla ricchezza di questo mondo come è successo a me. Diversi scritti, come quello di Gloria o di Anna, mi lasciano intendere, tuttavia, che questo timore non ha ragione di esistere.

Ho proposto ad alcuni ragazzi di visitare i nostri siti e di portare ai rispettivi clan anche degli scritti da loro scelti in aggiunta al racconto dell'esperienza. Per me è molto importante che non escano dal carcere solo numeri, ma anche e soprattutto pensieri.

Credo che uno dei nostri compiti sia quello di trovare il modo per valorizzare le informazioni "tecniche" che i detenuti ritengono importante divulgare, inserendole all'interno di un dialogo maturo con la società esterna.

Le celle sono i contenitori angusti e freddi delle emozioni e della voglia di comunicare dei detenuti. Il contenuto è la parte di carcere che vorrei fosse consegnata al mondo, perché è quella che non si legge sui giornali, che non sta scritta nei regolamenti penali, ed è quella che non si vede in televisione.

Cosa se ne fa la gente di una scatola vuota, se non usarla per metterci dentro quello che vuole? L'operazione di riempimento potremmo farla noi, arginando così la tendenza delle persone comuni ad infilarci dentro le loro fantasie surreali o le trame dei film.

Molti degli scritti che gli scout potranno leggere sono adatti a stimolare la creatività di ragazzi anche molto giovani, perché promuovono il dialogo, il confronto, l'intreccio di realtà diverse; certi racconti permettono di guardare a se stessi sotto una diversa luce e danno la possibilità ad ognuno di parlare della propria esperienza.

Se avranno voglia di navigare nei siti scopriranno che è possibile comunicare e collaborare con noi; troveranno lo spazio per inventare canzoni, disegni e dialoghi teatrali; troveranno un canale attraverso cui proporre, inventare e dare sfogo alla loro creatività, alla voglia di trasformazione e comunicazione che sicuramente li accomuna a noi.