Il reato dal punto di vista di chi lo soffre

Maria Rosa Bartocci

07-02-2004  

Sono Maria Rosa Bartocci, nel luglio del 1999 mio marito è stato ucciso durante una rapina nella nostra gioielleria ed io ero con lui.

Le indagini e i processi si sono svolti con rapidità e competenza, tanto che gli autori del crimine, due dei quali gli stessi dell'omicidio del tabaccaio di via Derna, sono stati giustamente condannati.

La mia famiglia è stata distrutta. I miei figli erano entrambi giovani e l'attività è stata ceduta poiché non potevo condurla da sola. Il punto più importante era e rimane la mancanza di mio marito, non solo per il suo rapporto con noi, ma soprattutto per il fatto che lui non potrà mai più realizzare i progetti che aveva: vedere i suoi figli crescere, lavorare, laurearsi e, perché no, diventare nonno. Le persone che hanno provocato la sua morte devono comunque pagare un giusto castigo. Non sono favorevole alla pena di morte poiché nessuno ha il diritto di togliere la vita ad altri, ma sostengo che debba essere prevista una punizione giusta e severa fino all’ultimo giorno della condanna.

Nell'estate scorsa uno dei criminali è uscito dal carcere per problemi di salute, pur essendo stato condannato all'ergastolo, pena confermata anche in appello. Ho appreso la notizia perché mi fu riferito che questa persona girava inaspettato e libero per il quartiere. Furono sentimenti di rabbia. Furono stupore e senso di umiliazione nei confronti della memoria di mio marito. Sentimenti a caldo, ma non solo nostri. Reagirono in questo nodo tutto il quartiere, la cittadinanza e le autorità milanesi.

Con maggior distacco ora sostengo che se un detenuto è malato deve potersi curare, ma non è giusto mandare queste persone a morire in mezzo alla strada se poi, come in quel caso, parenti e strutture sanitarie non le accolgono. Inoltre, in casi simili, si deve creare maggiore collaborazione tra le carceri e la polizia, che generalmente non viene neppure avvertita del provvedimento di scarcerazione. Altrimenti che si rafforzino le strutture di infermeria dei penitenziari, quando non vi sia modo di trovare una soluzione fuori da queste.

Nel dicembre scorso si è svolto il processo in Corte di Cassazione per due della banda che lo avevano richiesto; le pene sono state confermate all'ergastolo e a 18 anni. Posso solamente affermare che il sentimento che si prova alla notizia della condanna non è di soddisfazione, poiché Ezio non torna tra noi. Ma è importante che la giustizia abbia seguito fino in fondo il suo percorso.

La nostra società ci propone costantemente tragici eventi di varia natura, ma la condanna di ogni colpevole spetta unicamente alla Giustizia, nella speranza che possa essere vicina a chi ha subito e sofferto.

Dai giorni immediatamente successivi alla tragedia fino a oggi, dopo quasi cinque anni, i miei figli ed io abbiamo ricevuto numerose dimostrazioni di solidarietà, sia da parte di tutte le autorità istituzionali, che da parte della gente comune, che ricorda con particolare affetto la figura di mio marito.

Dopo pochi mesi dal doloroso evento è stato avviato un Progetto di riqualificazione del Parco Trotter e degli edifici in esso presenti, ricerca avviata con il “Laboratorio Abita” del Politecnico di Milano. Uno di questi edifici, dedicato a Ezio, avrebbe dovuto essere destinato a laboratorio per la formazione di artigiani. A questa ricerca ha partecipato attivamente anche mia figlia Barbara.
Questa idea è nata per restituire al nostro quartiere una nuova dignità dopo i mesi oscuri vissuti dal gennaio 1999, con l’uccisione del Signor Ottavio Capalbo (tabaccaio), ed in seguito con quella di mio marito.

L’iniziativa del parco Trotter, dopo la consegna del progetto preliminare, si è arenata, pur nella speranza mia e dei cittadini della zona che possa concludersi in futuro, dato che è un rigoglioso polmone verde, che con le scuole già presenti diventerà un centro di svago e di incontro sociale.

Vorrei sottolineare infine la condizione disagevole di chi vive il processo nel ruolo di vittima. Trovo inadeguato menzionare i risarcimenti economici, così come porre la parte lesa nella condizione di "giurare”, laddove i colpevoli possono avvalersi della facoltà di non rispondere.
Credo che la vittima debba poter godere di supporti psicologici e morali oltre che finanziari, tali da renderla capace di sopportare lo shock della disgrazia, l’incubo dei processi, portandola a credere in se stessa e nel prossimo.