Cosa c'entra De André col Gruppo della Trasgressione? |
Angelo Aparo | 11-01-2009 |
In Italia e all’estero abbondano iniziative e manifestazioni attorno al decimo anniversario della sua morte e non stupisce che in questi giorni diverse persone mi abbiano posto la stessa impegnativa domanda: perché De André è così importante per il Gruppo della Trasgressione? Ho ascoltato i primi dischi di De André nella seconda metà degli anni ’60. All’epoca, ancora adolescente, trovavo nelle sue canzoni un eccellente vaccino contro la banalità e gli stereotipi. L’album “Tutti morimmo a stento” fu per me l’invito di un fratello maggiore a riflettere sulla nefandezza della guerra, ma anche sulla fragilità dell’uomo che si lascia affascinare dal potere o che si dimette dalla vita. Un paio d’anni dopo venne “La buona novella” e il suo anelito a mantenere vivo il legame fra sacro e profano. Un giorno, in 3° liceo, chiesi all’insegnante di religione di ascoltare il disco nella sua ora di lezione. Era il 1970. Ne parlammo insieme tutta la classe; il mio amore per Fabrizio De André si radicò definitivamente e le sue canzoni sono diventate parte significativa del prisma attraverso il quale mi guardo attorno. Mentre lui, in viaggio sulla sua “cattiva strada”, rimescolava senza sosta le categorie del bene e del male, io giungevo alla laurea in psicologia, approdavo nel ’79 al lavoro in carcere e cominciavo a chiedermi quali stati d’animo vive chi spaccia, rapina, commette abusi di potere in genere. De André, come mi disse l’unica volta che ci siamo incontrati di persona, il carcere lo fece per qualche tempo da “privatista” nei pochi metri quadrati in cui furono costretti a vivere lui e Dori Ghezzi durante il sequestro. Ma lui continuò a interrogarsi per cercare l’uomo anche dopo quella esperienza; anzi, lì, all’Hotel Supramonte, poté toccare con mano quello che, già nel “Testamento di Tito” e poi con l’”Antologia di Spoon River” e con “Non al denaro, non all’amore, né al cielo”, aveva già più volte riconosciuto e cioè che quando ci si sente senza diritti, spesso si ricorre all’abuso verso gli altri o verso se stessi o, come accadrà in seguito a Pasquale Cafiero, si diventa conniventi col potere. Dai tempi del sequestro, passano quasi due decenni, fino ad arrivare al ’97. La lista dei suoi personaggi imperfetti, fragili, sospesi, vitali si è allungata. Ai già noti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, il suonatore Jones, si aggiungono Andrea, il servo pastore, Princesa. De André ne canta le aspirazioni, le incertezze, continua a raccogliere la ricchezza umana delle loro difficoltà, ma valorizza anche la loro dichiarata incapacità di inamidarsi dietro le maschere del successo, del potere, delle certezze. Accetta l’errore e l’inganno che l’uomo produce verso se stesso, ma combatte il potere che dell’inganno fa strumento per perpetuarsi. Nelle persone che mancano il bersaglio pesca le nostre aspirazioni più durature, le raccoglie e le accudisce. Non crede a nulla di assoluto, procede, anzi, fra illusioni sfiorite, ma ogni volta ritrova nella speranza zoppa un’amica più sincera del trionfo della vanità (“La ballata dell’amore cieco”). Le sue rare canzoni d’amore parlano di frammenti di eternità (“Le passanti, amore che vieni amore che vai”), un ossimoro che si accompagna alle atmosfere di tante canzoni dove vivono insieme sacro e profano (Il sogno di Maria). Ma il suo approccio alla vita è tutt’altro che dimissionario o minimalista. Direi, piuttosto, che Fabrizio De André assegna a se stesso il compito impegnativo di vivere nella giocosa e vitale coscienza della sua fragilità. Nel frattempo io lavoro nel carcere di San Vittore a Milano per 18 anni, ma mi rendo conto che non riesco nemmeno a sfiorare i detenuti dei quali dovrei pronosticare il futuro nelle mie relazioni. Nel ’97 lui giunge alle “Anime Salve”, l’imperfetto e prezioso gruppo dei suoi compagni di viaggio; io, dopo anni di diagnosi e prognosi piuttosto sterili commissionate dal Ministero della Giustizia, individuo nei detenuti dei buoni compagni di ricerca e nasce, appunto, il “Gruppo della Trasgressione”. Con loro comincio a scoprire i fondali del rancore e a toccare con mano i sogni abortiti o congelati di chi vive con la pistola in mano o con lo scettro sulla scrivania. Ecco un paio di testi fra i tanti di questi anni:
Avrebbe dovuto essere lui il nostro primo ospite. Al gruppo non lo aspettavamo perché i detenuti si sentissero parte degli ultimi. Nei miei desideri c’era che lui venisse a raccontare la ricchezza della imperfezione, la bellezza della fragilità, che venisse a cantarci o a parlarci di quanto può essere eccitante vedere “Nina Volare”, mentre qualcuno mastica e sputa da una parte la cera e dall’altra il miele. Ma pochi mesi dopo il nostro invito si ammalò e non venne mai. Venne la sua morte e il lutto e, dopo qualche anno, la voglia di tenerlo vivo dentro e, da lì, le tante iniziative del gruppo a lui collegate. La principale è costituita dal mescolare le sue canzoni ai nostri testi e portare l’impasto nelle scuole medie superiori nell’ottica della prevenzione di bullismo e tossicodipendenza. Con gli adolescenti, strano a dirsi, i detenuti riescono ad essere efficacissimi quando raccontano della riscoperta delle loro antiche paure mentre ricostruiscono il percorso delle loro scelte (Trsg.readings). Per Fabrizio De André, fin dalle sue prime canzoni, non ci sono mai stati uomini inutili, uomini dentro le cui vite non si potesse rintracciare quella “goccia di splendore” che, dalla “Ballata del Miché” all’ultima “Smisurata preghiera”, egli trova in ognuno dei suoi personaggi imperfetti. Da “Via del campo” alle “Anime Salve” egli ci ha offerto per 40 anni decine di inviti a cercare l’uomo non solo e non tanto quando vola vittorioso verso il traguardo, ma soprattutto quando manca il bersaglio o ne coglie uno lungo una strada di periferia. Il Dio al quale egli chiede, a 56 anni compiuti, di ricordare chi viaggia in direzione contraria è lo stesso al quale, circa 30 anni prima, aveva rivolto la “preghiera in gennaio” per chiedergli di accogliere il suo amico Luigi Tenco. Per il gruppo della trasgressione, l’eredità di De André è soprattutto il piacere di rintracciare nella propria e altrui imperfezione le tessere con cui giocare la partita della vita. E, infine, partendo dai rispettivi testi:
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