La notizia: un prodotto di sartoria

 

Livia Nascimben


E' da una settimana che ripenso alla questione sollevata da Sara sulla modalità di fare e dare informazione riguardo a questioni delicate, sul senso e sugli effetti che le notizie hanno per le persone.

Da una parte ci sono giornalisti ed esperti (o presunti tali) e dall'altra ci siamo noi lettori, spettatori che, di fronte ad una notizia di cronaca, possiamo avere, per semplificare, due atteggiamenti opposti: uno attivo, che ci porta a riflettere e a porci delle domande su quanto appreso; un altro passivo, che ci induce ad assorbire acriticamente ciò che ci viene proposto oppure a prenderne le distanze. Ovviamente, tra questi due estremi si trova tutta una gamma di comportamenti e reazioni differenti, a seconda della diversa intelligenza, sensibilità ed esperienza dei singoli e delle circostanze in cui si viene a conoscenza della notizia.

I mezzi di informazione, in ogni caso, dovrebbero tenere presente che il modo in cui i fatti vengono proposti incide su come la gente riflette e su come recepisce i messaggi (..sempre che siano presenti messaggi da recepire! Quante volte capita di guardare un servizio al tg e poi chiedersi per quale motivo è stato mandato in onda?). Si può parlare della stessa situazione in modi assai differenti: un avvenimento, un'intervista, una storia può essere presentata a mo' di denuncia, lamentela, "curiosità" oppure essere inserita in un contesto in cui si cerca di capire il perché di certi comportamenti o avvenimenti.

Penso esista un limite superato il quale una persona diventi comprensibilmente insofferente di fronte allo sbandieramento della sofferenza. Un limite dato dalla modalità con cui viene fornita l'informazione, un po' come quando ci troviamo ad ascoltare un amico in crisi: a volte ci verrebbe d'istinto di prenderlo per le spalle e scuoterlo perché è lì fermo e non fa altro che crogiolarsi nel suo, mentre altre gli offriamo tutto il nostro appoggio e calore perché sentiamo che si trova in difficoltà, ma anche che desidera far di tutto per cercare di risolvere la sua situazione di disagio.

Anche noi, nel nostro piccolo, in questa fase di discussione e progettazione del film sulla sfida ci stiamo ponendo il problema di come sia meglio comunicare una realtà in modo tale che la comunicazione, oltre che a far conoscere, susciti l'interesse, induca a riflettere e promuova il dialogo.

Fra i commenti seguiti allo scritto di Sara, mi ha colpito la risposta di Monica, che dice che per ora non riesce ancora ad immedesimarsi nel ragazzo che ha soffocato la sua fidanzata; a mia volta, ho istintivamente provato orrore e rabbia per il gesto dell'assassino; il mio pensiero è andato alla sofferenza della ragazza e alla disperazione di due genitori che al ritorno dalle vacanze trovano la figlia morta.

Fine, tutto qui! Non ho speso un solo minuto a pensare alla disperazione del ragazzo anzi, ho pure detto "che idiota a telefonare con il cellulare di lei e farsi beccare!", non ho pensato alla sua famiglia che si è trovata, "di punto in bianco", ad avere sulle spalle la responsabilità di aver cresciuto un figlio che si è trasformato in un assassino e di non essersi accorta in tempo che si stava perdendo.

Sono mesi che ci interroghiamo sulle spinte e i retroscena che portano un individuo a compiere un gesto deviante, sono mesi che cerchiamo, dentro le mura e con chi dentro le mura sconta la sua pena, l'origine del male, un seme comune che fino ad un certo momento del percorso abbiamo condiviso e che poi si è trasformato e ha preso direzioni diverse, sono mesi che detenuti e studenti collaborano.. eppure, in intimità con me stessa, ho pensato solo alla ventenne uccisa, poi magari mi trovo a tavola con i miei a discutere insieme sulle "due vittime di un omicidio", ma se non mi lascio coinvolgere da un fatto, se non rifletto, se non mi confronto con qualcuno, sono spinta a vedere solo una vittima, la persona "innocente" il cui spazio è stato violato.

Mi stupisco, ma forse non dovrei nemmeno: è proprio questo che cerchiamo (tra l'altro!), come possano coesistere spinte tanto diverse se non addirittura opposte, la necessità di nascondere e quella di portare alla luce, il bisogno di proteggersi dal male e quello di ritrovarselo di fronte per poterlo comprendere, il bisogno di sentire che la sofferenza e l'imperfezione ci sono lontane e appartengono all'altro e quello di avvicinarsi proprio a quell'altro per riconciliarsi con le proprie di mancanze.

Una mia cara amica, l'anno scorso a marzo, nel periodo in cui la televisione ci bombardava di trasmissioni dedicate al delitto di Novi Ligure, ha scritto una lettera di sfogo a Paolo Crepet, psichiatra ospite in diverse trasmissioni, per comunicare la sua rabbia di fronte a servizi in cui si parlava di una "famiglia serena e felice devastata" (la famiglia De Nardo) e di una "figlia quasi ideale assassina" (Erika), come se una disgrazia terribile si fosse abbattuta su quella famiglia e non fosse invece stato un processo silenzioso e continuo a condurre al delitto, come se non ci fossero mille altre storie di incomprensioni, sofferenza e rancori inespressi dietro le finestre delle nostre case, come se quell'episodio non ci appartenesse e non ci fossero invece tanti modi per "perdersi" che all'origine hanno la stessa difficoltà a comunicare.

Raccontava la sua storia, le sue difficoltà a comunicare con i suoi genitori, il desiderio, mai esplicitato in casa, che aveva di poter "sfruttare" la vicenda di Novi Ligure per aprire un dialogo con loro e la risposta di chiusura ai suoi timidi tentativi che aveva avuto in cambio. La sua lettera, che ha voluto condividere anche con me, iniziava così: "Mi sono sempre interessata ai fatti di cronaca. Storie vere. Storie di tutti i giorni. Storie…così diverse eppure così uguali. Non ho il gusto del macabro, cerco me stessa. Cerco di ricostruire, di dar senso ad ogni mia piccola parte che ritrovo anche negli altri. Per non sentirmi troppo diversa. Per non sentirmi un mostro. Per legittimarmi a vivere."

Credo che le parole della mia amica possano rispondere, almeno in parte, al quesito che Antonella pone su dove abbia origine la "fame di informazione" soprattutto relativa a fatti di cronaca drammatici; forse il fatto di cronaca diventa uno strumento al servizio di chi ha bisogno di ritrovarsi e, al tempo stesso, di difendersi grazie alla mediazione che ci è permessa dalla tragedia vissuta da altri; forse incontrare parti di sé e tenerle contemporaneamente a distanza, attribuendole ad assassini dal volto indistinto o alle loro vittime, è una delle cose di cui abbiamo tutti bisogno; forse è anche questo bisogno di rintracciare e contenere parti di sé uno dei motivi per cui stiamo inchiodati alla tv a guardare quelle trasmissioni; e forse è ancora questo bisogno ciò che mi ha coinvolto a novembre col corso e ora con le attività del sito.

Noi del sito, a maggior ragione da quando entriamo in carcere, abbiamo la responsabilità di selezionare con cura i "fatti" sui quali riflettere e, per quanto possibile, la direzione della nostra riflessione. Stiamo imparando ad assumere un atteggiamento critico di fronte alla vita, agli eventi, alle notizie che separano o che aggregano. Riusciremo a far dialogare il desiderio di conoscere, il bisogno di rispettare noi stessi e gli altri, la spinta ad affermarci?

E' buffo, è appena arrivata un'ambulanza nella mia via; immediatamente ho sentito l'impulso di andare alla finestra per vedere se si fosse fermata al mio numero civico. Al mio dico, perché se fosse stato a quello successivo sarebbe stata un'altra storia…

Beh, è "simpatico" rendersi conto di custodire in sé un'infinità di contraddizioni!