Sono Simone Algisi,
sto seguendo il corso sulla devianza presso l'Università Bicocca di Milano.
Riflettendo sulla questione dello spazio concesso dall'istituzione al cittadino-vittima per esprimere il suo disagio, mi sono imbattuto in un articolo di E.Scabini tratto dalla rivista "Psicologia contemporanea" n.159/maggio-giugno 2000 dal titolo "Il perdono" . L'autrice sostiene l'importanza del perdono come processo di protezione e di ricostruzione dei rapporti interpersonali: mi è sembrata una prospettiva da tenere in considerazione che non è stata ancora affrontata nel corso.
Mi auguro che il tema si possa evolvere in qualche modo.
Una richiesta di chiarimento...
Nella lezione del 16.11.01 si è detto che l'uomo categorizza la realtà per far quadrare le cose in maniera tale da liberarsi nel più breve tempo possibile di ciò che sente estraneo e sconosciuto.
Ma tutta l'attività di conoscenza dell'uomo non è alla fine un modo di categorizzare la realtà? Come poter affrontare la realtà senza generare pregiudizi di fronte a persone e questioni che non rientrano nelle nostre categorie? Esistono categorie definibili giuste a cui l'uomo "normale" deve fare necessariamente riferimento?
Ha senso dire che il deviante è un individuo che non rientra in queste categorie "giuste" ?
Un ultimo dubbio a proposito della colpa (se ha senso parlare di colpa).
Poniamo ad esempio che un pedofilo sostenga di essere impotente di fronte all'attrazione che esercita su di lui un bambino, giustificando in questo modo il proprio atto.
Ora... se durante l'atto il pedofilo può dire di essere come rapito e non riesce a fermarsi, prima e dopo l'atto può avere un piccolissimo barlume di coscienza che gli permetta di ipotizzare una sua potenziale condotta deviata?
e che quindi la sua eventuale colpa, prima ancora di esercitare il gesto, è quella di non assumersi la responsabilità di rivolgersi a qualche persona competente?
Ringrazio per il tempo dedicatomi.
Per rispondere: perifabio@libero.it
A presto
Simone Algisi