Egr. Prof. Aparo,
Stavo riflettendo sulle Sue lezioni di psicologia della devianza e mi sono interrogata sulla relazione esistente (eiste?) tra spinte alla trasgressione e personalità narcisistica.
Il trasgressore (chi delinque o chi, più positivamente, sperimenta per ampliare gli orizzonti -penso all'artista)
Chi lancia la sfida ha bisogno di un interlocutore, ha bisogno di individuarlo all'esterno, di riconoscerlo e farsi riconoscere. Apparentemente il trasgressore è sicuro di sè, non ha bisogno dell'approvazione dell'ambiente, non ha paura di stare "fuori dal coro", ma, di fatto, neppure lui basta a se stesso...
L'artista, per non sentirsi pazzo, necessita del pubblico e il delinquente della cosidetta "brava gente" che si sente rappresentata dalla legge.
Questo sentirsi diversi/esclusi, che immagino provenire da fattori socio-culturali, oltre che dalla storia personale di ognuno, può essere ascoltato e contenuto? E' pensabile, insomma, che la società nel suo complesso svolga il ruolo della "madre sufficente buona" di Winnicott di cui ci ha parlato a lezione?
Ma come reagisce questa madre di fronte al narcisismo del bambino che per un verso lo aiuta a separarsi da lei, ma, dall'altro, lo lascia drammaticamente solo e senza regole con cui stare al mondo?
Nella sua esperienza in carcere, ha riscontrato questa doppia faccia del narcisimo per cui ci si sente più furbi/intelligenti/sensibili degli altri e nello stesso tempo sfortunate vittime incomprese?
La ringrazio per l'attenzione che vorrà dedicare ai temi che ho cercato di sollevare
M