Il pasto della vanità

Bruno De Matteis

04-04-2011

Ho vissuto nella devianza e assaporato spesso il piacere delle gioie corte, quello che desideravo lo prendevo di prepotenza e per vanità. Nessuno poteva ostacolare ciò che cercavo: il piacere della conquista, del proibito, sia esso di soldi, donne, divertimento. Non ho mai pensato a cosa poteva accadermi realmente. Il futuro non esisteva, vivevo alla giornata perché il piacere della trasgressione era così forte e adrenalinico che per me esisteva solo quello che pretendevo e mi prendevo.

Per lunghi anni ho vissuto alla mia maniera, sbagliata sì, ma era ciò che desideravo: una mia scelta, una rivalsa verso una società che mi aveva voltato le spalle nel momento del bisogno, quando a 18 anni ero già padre e orfano e, se chiedevo un lavoro, mi era negato. Una mia scelta, non costrizione di qualcuno, scegliere di vivere trasgredendo a ogni divieto e a tutto quello che veniva imposto, quello era un piacere, un’eccitazione. Far subire la prepotenza del comando, sottomettere con una pistola in mano chi del denaro era pieno, entrare nelle banche e rapinarle, arraffare tutto e andare via, l’adrenalina del sentirsi forte, sfidare la legge per sentirmi grande. Non avevo nessun progetto serio, pulito, volevo solo, gradino dopo gradino, arrivare in alto, alle poltrone del potere, a ciò che desideravo da sempre. Il virus mi aveva impregnato tutto.

 

Il virus e il bullo, Sebastiano Allia

 

Raggiunta quella tanto desiderata conquista, mi resi conto che era ormai troppo tardi. Il virus e io eravamo finiti in un buco e con una condanna infinita, nonostante fossi ancora giovane, 36 anni. Ammaliato dal virus, non riuscivo a scrollarmi di dosso quella malattia, nonostante prendessi del medicinale da persone pulite che volevano aiutarmi. Quanto ho dovuto faticare e masticare dolore per tentare di liberarmi da quella nera macchia che ancora mi porto addosso! Forse oggi è un po’ sbiadita.

Da molti anni ho capito che questo vortice di gioie corte non serviva a nulla, se non a rovinare la vita. Ho cominciato a costruire un progetto serio, che mi doveva portare stavolta non in alto, ma a volare basso, per cercare di far scomparire in me quel virus così forte delle gioie corte. Sono da 20 anni continui in carcere (e 10 fatti precedentemente), gli ultimi 10 li ho passati a riflettere da solo e poi con l’aiuto di tante persone che mi hanno stimato in vari carceri in cui sono stato.

Tre anni fa sono arrivato ad Opera, dove il carcere e la vita che si respira nell’interno è dura, e io che ho vissuto tante di queste situazioni e girovagato nelle carceri più dure, anche nel 41 bis, ho capito subito che qui sarebbe stato ancora più duro continuare quel progetto che mi ero prefisso. Questa è stata la mia impressione all’arrivo. A distanza di tre anni devo dire che forse sì, Opera è un carcere duro, ma anche un Istituto che ti offre delle opportunità, se le sai coglierle al volo. Da quasi subito ho fatto parte del nostro gruppo, ho ricordi piacevoli di scontri con compagni che oggi non ci sono più perché trasferiti, altri scontri costruttivi col Dott. Aparo, Silvia, Livia e con gli attuali compagni, che man mano sono arrivati negli ultimi due anni.

Ho lavorato tantissimo su di me, ho cercato ancora una volta le reali ragioni di quel virus, perché mi sono reso conto che quel virus si è mangiato i migliori anni della mia vita, lasciandomi quasi senza speranza. Ho dovuto faticare molto e far capire all’area pedagogica e alla Direzione che io desideravo la speranza, e non potevano spegnere quella fiammella che tenevo sempre accesa, in attesa di qualche lampo di felicità. In quel progetto da me costruito ho cercato aiuto e di coinvolgere altre persone che mi aiutassero a scoprire le reali ragioni. Ho cercato il virus della guarigione insieme ai miei compagni che oggi sono seduti al mio fianco. Il Dott. Aparo ha fatto la sua parte, forse la più importante nel farmi scoprire nicchie di dolore incrostate di odio che nascondevo a me stesso. Ho parlato, mi sono sfogato, sono stato sopportato, aiutato, capito anche dalle educatrici che mi sono state assegnate dalla Direzione.

Dopo 20 anni quel progetto così a lungo curato ha fatto sì che forse sono guarito o sono sulla buona strada. Finalmente dopo tanto ho avuto per due volte la gioia di 12 ore di libertà e due permessi: sono stati così intensi… abbracciare i miei figli, i miei nipoti che non vedevo da 10 anni e mia moglie che da 40 anni mi è vicino. Camminare in mezzo alla strada, la paura delle macchine perché le vedevo sempre vicine, il timore di essere investito. Riscoprire il bicchiere di vetro, la pesantezza delle posate in ferro, visto che per 20 anni ho mangiato solo in plastica. Tante scoperte, tante gioie che non basterebbe un block notes. L’abbraccio dei miei nipoti come se mi conoscessero da sempre, giocare con loro al pallone, abbracciare i miei figli, accarezzare il viso stanco di mia moglie, stringerle le mani: un’emozione che mi brillano ancora gli occhi, scoprire che a distanza di 20 anni i miei figli mi stimano e mi vogliono bene.

Ieri mia figlia mentre mangiavamo al ristorante mi ha detto: “papà sai non pensavo che fossi così”, ed io: “Così come?”, e lei: “papà io non ti conoscevo, mi ero immaginata mio padre, ma mai ho pensato fosse così meraviglioso“. Ho pianto, sì lo ammetto, a 57 anni si può ancora piangere di gioia. Quella gioia corta, quel virus, credo che sia solo un lontano ricordo, la malattia grazie a tante persone è guarita e con la mia famiglia sono riuscito a rinascere ancora una volta.

Un pensiero va a mia moglie, che quando le comunicai che sarei uscito in permesso alle 9.00 del mattino e le chiesi come avrebbe fatto ad arrivare, dato che il treno arrivava alle 11.30, lei mi rispose: “non preoccuparti, noi saremo ad aspettarti dalle 7.00 del mattino. Ho girato per 20 anni nelle varie carceri d’Italia per vederti anche solo per un’ora dietro ad un vetro, adesso che possiamo vederti libero, ci saremo”. Così è stato. Questo è il mio orgoglio.

In fin dei conti, non credo di essere stato un cattivo marito e padre, se hanno ancora tanto amore nei miei confronti. Per questo mi sento ancora più forte per il futuro, perché quel virus non potrà mai più intaccare un mare d’amore che mi circonda. Per questo ringrazio mia moglie, che non mi ha mai abbandonato anche nei momenti più dolorosi: era lì ad asciugare le mie lacrime, le nostre ferite di un dolore infinito che ha colpito entrambi, la perdita di uno dei nostri figli ha rafforzato ancor di più il nostro sentimento che dura da quasi 40 anni. Credo di aver saputo cogliere e sfruttare le occasioni che mi sono state concesse e le tante sedute del gruppo della trasgressione sono state davvero il mio vaccino di guarigione dal virus. Infine ho riscoperto che esiste ancora l’uomo di lealtà e di parola.