Il mio Natale |
Antonio Catena | 18-05-2011 |
Il Natale è un bel giorno, ma quando ero bambino il Natale non era solo un bel giorno, era il giorno in cui potevo gioire. I miei coetanei a quel tempo erano per la gran parte appartenenti a famiglie benestanti del Nord, non mancava loro nulla. Nelle proprie camerette avevano ripostigli colmi di giochi ammassati uno sopra l’altro, spesso nuovi e mai utilizzati. Quando venivano a scuola si presentavano con capi di abbigliamento firmati. Io invece, figlio di genitori del Sud, vestivo con abiti di sottomarca. Quando una maglietta si scuciva, mia madre la rammendava e, se un jeans si strappava, vi metteva una toppa, che andava anche bene visto che era di moda di quei tempi. Se desideravo un gioco e un indumento di marca, dovevo aspettare il Natale.
Il Natale non era solo il giorno in cui si potevano realizzare i miei desideri di bambino, ma era anche il giorno dove nella mia famiglia si respirava un clima di serenità e amore. Come tradizione, io e la mia famiglia ci mettevamo in viaggio verso Napoli per festeggiare il Natale a casa di mia nonna paterna insieme ai parenti del posto. Il giorno della vigilia nell’aria c’era un clima di gioia, perfino mio padre, solitamente padrone, si riscopriva un papà, riusciva perfino ad ascoltarmi e a interessarsi a me senza prendermi a schiaffi o a calci per qualche motivo che non riuscivo mai a capire.
La sera della vigilia eravamo circa una trentina di persone fra zii, zie e nipoti. Ci sedevamo tutti intorno al tavolo con mia nonna a capotavola. Un paio di parenti si mettevano vicino all’albero di Natale per la consegna dei regali. Ad ogni pacchetto che prendevano leggevano ad alta voce il biglietto con la frase di rito che lo accompagnava e il nome del destinatario. Ogni volta che sentivo il mio nome, l’adrenalina dell’attesa si trasformava in gioia e l’euforia di prendere il regalo in frenesia nello strappare la carta della confezione. Mi si illuminavano gli occhi quando vedevo il regalo atteso chissà da quanti mesi. Correvo subito ad abbracciare i miei genitori, quando mio padre ricambiava il mio abbraccio con un sorriso il mio cuore era un’esplosione di emozioni, quello era l’istante nel quale ricevevo il mio Natale. Andavo subito ad indossare gli abiti che mi erano stati donati e mi mettevo a giocare con i giochi nuovi. Vi giocavo per settimane così assiduamente da rovinarli o romperli.
Che gioia il Natale, ma che frustrazione e rabbia dovere aspettare quell’unico giorno l’anno per gioire! Ricominciava l’anno nuovo e si tornava alla solita quotidianità, un padre padrone e altri NO ai desideri di un bambino. Mio padre ogni fine mese dava la mensilità a mia madre che doveva pagare le bollette e far quadrare i conti per la spesa. Io accompagnavo sempre mia madre a fare la spesa e una volta al mese ci fermavamo al negozio accanto al supermercato, vendeva per lo più biancheria intima a prezzi convenienti. Mia madre cercava di fare bastare i soldi per cambiare l’intimo a me, mia sorella e mio padre; pensava sempre a noi, non ricordo di avere mai visto mia madre spendere qualche cosa per se stessa.
Quel giorno mi trovavo con lei in fila alla cassa del negozio di intimo; mentre eravamo in coda curiosavo con lo sguardo dentro le ceste prima della cassa, che contenevano varie cianfrusaglie fra cui giochini. Subito saltò ai miei occhi una confezione con dentro una coppia di macchinine, erano due maggiolini di quei modelli a molla, quelli che ricaricavi tirandoli all’indietro e la spinta gli permetteva di sfrecciare veloci per alcuni metri. Uno era di colore oro, l’altro tutto nero con fiamme rosse sulle fiancate.
Attirai subito l’attenzione di mia madre, che era intenta a pagare alla cassa, le chiesi se me le avrebbe comprate, visto che costavano poche mille lire, ma lei mi rispose con un secco “NO!”. Sapevo che era inutile insistere anche perché Natale era già passato e mancava ancora molto al prossimo. Allora mi decisi, scelsi quale delle due volevo di più, come se non le potessi avere entrambe, infine optai per la nera con le fiamme rosse sulle fiancate, aprii la confezione e la misi in tasca approfittando della distrazione di mia madre e della cassiera.
Quando uscimmo dal negozio mostrai la macchinina a mia madre con aria soddisfatta, ma la mia soddisfazione svanì subito quando con sguardo furibondo lei iniziò a rimproverarmi. Cercò di farmi restituire la macchinina, ma io piangendo le dissi che non l’avrei più fatto e la convinsi a non riportarmi al negozio. La implorai anche di non dire niente a mio padre che mi avrebbe dato di certo botte. Lei mi promise di non dirglielo, ma non fu così. La sera mio padre mi chiamò tenendo tra le mani la macchinina, io lo guardavo impaurito aspettandomi il peggio, ma stranamente mi fece solo una ramanzina. Penso che sia stato grazie a mia madre che quella volta mio padre non mi picchiò. In qualche maniera lei mantenne così la sua promessa.
Quello su cui oggi mi fa riflettere questa storia è che io ricordo ogni dettaglio di come era fatta quella macchinina, ricordo di averla desiderata e di essermene impossessato, ma non ricordo di averci mai giocato. Un bambino non chiede di venire al mondo, ma una volta nato ha delle pretese dalla vita: pretende di crescere, di essere amato, di essere ascoltato. A volte capita che queste cose vengano meno e lui inizi a sentire un senso di ingiustizia, a covare rabbia e rancore nei confronti della vita. Oggi sono convinto che la crescita dell’individuo avviene dal momento che nonostante le ingiustizie subite, si smette di pretendere dalla vita e si inizia a pretendere più da se stessi. Io non so se riuscirò a crescere, perché nonostante oggi abbia più consapevolezza e volontà di cercarmi, sono troppo arrabbiato e aspetto ancora il mio Natale.