Viet vo dao
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Rossella Dolce | 25-03-2005 |
Oltrepassare un segno e fare finta che non sia cambiato nulla; dimostrare di essere più forti della paura degli altri e delle proprie; dimostrare che le linee tracciate da altri o dalla natura sono inconsistenti, utili solo a chi resta sempre un passo indietro.
Inutile negare che per tre anni mi sono allenata e ho partecipato a gare di mezzofondo, spinta da questo desiderio! Ho corso molte volte un rischio eccessivo, giocando con la resistenza del mio cuore, anteponendo l’orgoglio alla ragione e ai sentimenti. Un giorno ho deciso che quella partita non mi interessava più e ho smesso. Non perché avessi perso la voglia di vincere, ma perché volevo cambiare scenario alla mia personale battaglia.
Mi sono presentata spavalda ad un corso di kickboxing, sport nel quale la determinazione e i rischi sono quasi scontati. Le lezioni sono sempre state faticose, divertenti e liberatorie. Dopo qualche mese ho imparato le tecniche dei calci e dei pugni e ho iniziato a tirare forte contro un sacco che ogni giorno era ai miei occhi un nuovo muro da buttare giù. I sentimenti di libertà e onnipotenza da me cercati, erano lì, disponibili due volte la settimana per un’ora. Dopo altri sei mesi però anche questa routine ha iniziato a stancarmi.
Il maestro mi ha dunque consigliato di seguire le lezioni di “Viet vo dao”, un’arte marziale vietnamita, forse la più complessa tra le arti marziali e, come tutte, piena di regole da seguire. Ad esempio, entrando, si deve salutare il centro della palestra, come simbolo di rispetto per il luogo in cui si andrà a lavorare. Poi bisogna salutare il maestro con il grado più alto, poi tutte le persone con una cintura nera. La parola del maestro non è mai opinabile o discutibile. Durante la lezione non sono ammessi abiti diversi da quelli decisi dal maestro. Se ci si attarda a parlare negli spogliatoi e si ritarda l’inizio della lezione, o se un errore continua ad essere ripetuto per disattenzione, o se una qualsiasi tra queste regole viene disattesa, le flessioni sono assicurate.
A vederle così, sono indubbiamente una lista insensata di formalismi, che certo non apprezzo. Però non mi sono mai sentita costretta da queste regole. Certo, l’aver accettato di entrare in questo mondo ha significato aderire ad un contratto con il maestro e con gli altri allievi.
In particolare, il fatto di non poter oppormi ad una qualsiasi decisione del maestro è una regola che inizialmente mi rendeva dubbiosa. Poi però ho capito che non sono solo io a dover sottostare ad un contratto; la sua autorità, infatti, comporta per lui adeguate responsabilità. Ad esempio, se mi ordinasse di eseguire un esercizio senza un’adeguata preparazione, io potrei farmi male e la responsabilità sarebbe sua.
Ho fiducia nella professionalità e anche nell’amicizia del mio maestro. So che pretende tantissimo, che pagherò a forza di flessioni ogni mio errore, ma so che se sbagliassi durante un esame lui mi difenderebbe e perderebbe con me e che in ogni momento della lezione mi sento protetta. Non condivido tutte le sue scelte, ma quello che succede durante un allenamento o un esame prescinde dal fatto che ognuno abbia e mantenga le sue opinioni.
In queste circostanze, mi trovo a fare delle acrobazie o dei movimenti che non avrei immaginato di poter fare, che non avrei mai saputo inventare. A volte, riesco ad addomesticare la gravità e altre il dolore al ginocchio, quasi sempre sento di scaricare la tensione senza volere rompere qualcosa per averne conferma.
Questo accade perché dopo alcune settimane, i miei limiti, come la mia grinta e aggressività, sono apparsi chiari ai suoi occhi e ogni suo ordine mi ha portato un passo alla volta a spostarli più in là. Non ci sarei riuscita da sola, i miei pugni inizialmente volevano solo rompere le costrizioni, ora riescono a scioglierle e ad allontanarle.
C’è stato un periodo in cui ho pensato che essere l’unico guerriero fosse in qualche modo romantico, ora saluto il maestro quando entro nella palestra. Credo sia questa la chiave del cambiamento. Non sento di aver tradito la mia forza o la mia determinazione e nemmeno la mia rabbia. Ora credo che il patto di chi cerca insieme non è un tradimento di se stessi, ma un’alleanza.
Ho capito a mie spese che scavalcare o rompere un muro da soli non lo cancella, ma segna una distanza tra chi resta da una parte a chi irrompe nell’altra. Soprattutto, il muro torna integro e irritante appena un secondo dopo. Il canto che cercava Ulisse va comunque ascoltato, vissuto e raccontato. E si devono trovare il modo e le persone con cui riuscirci, anche se non si rimane per tutta la vita tutti sulla stessa nave.