Edifici multietnici |
Alessandra Cesario | 03-02-2007 |
Dentro di me abita un giudice. Non saprei dire con precisione quando si è insediato. Mi accompagna almeno da quando avevo otto anni.
Non smette mai di parlare, a volte urla. E’ un tormento continuo. Il suo hobby preferito è criticarmi. Non gli piace il mio aspetto. Nulla di ciò che faccio gli va bene. A volte le persone che mi circondano si rivolgono a me con le sue stesse parole. Accuse senza via di scampo.
Di fronte alle accuse ho un atteggiamento duplice: dentro di me mi flagello perché è sempre colpa mia. Fuori di me sono imperturbabile. Ribatto alle accuse con sicurezza, facendo la parte di quella che sa che non potrà mai essere scalfita dai commenti degli altri. Mi batto con le unghie e coi denti perché non accetto di essere considerata “una causa persa”.
La verità però un’altra. Il mio giudice mi ha già condannata senza possibilità di appello. E io faccio fatica a non assecondarlo e a non dargli ragione. Raramente riesco a farlo tacere.
Da qualche tempo ho conosciuto delle persone con le quali studio teatro. La strada mi sembra quella giusta. Non è che il giudice abbia smesso di dire la sua, solo non urla più tanto, si fa capire, sta imparando un’altra lingua o forse io sto imparando la sua. Di sicuro, sul pianerottolo comune, c'è meno frastuono.