A teatro, per aggiornare il proprio copione |
Angelo Aparo | 21-09-2009 |
Oggi ho chiesto a Giuseppe cosa lo avesse indotto a cambiare idea il giorno del concerto della Trsg.band a Inzago, dopo che aveva rifiutato il mio invito a salire sul palco per leggere la poesia di suo padre.
- Mi vergognavo, poi mio zio Giulio mi ha incoraggiato, mi ha detto che ne avremmo letto metà ciascuno.
- E cosa hai provato poi, mentre la leggevi?
- Ero orgoglioso che quella poesia l’avesse scritta mio padre pensando a me e, mentre leggevo, sentivo che, se avesse potuto vedermi, sarebbe stato orgoglioso di me.
Giuseppe è il figlio 15enne di Enzo, un detenuto che ha scritto una poesia in risposta a una canzone di Fabrizio De André. L’una e l’altra hanno lo stesso titolo: Quello che non ho.
Giulio è una persona molto vicina a concludere la pena cui è stato condannato e che, dopo molti anni di carcere, oggi beneficia delle misure alternative previste dalla legge. Grazie ai permessi rilasciati dal magistrato di sorveglianza, e insieme con altri detenuti del Gruppo della Trasgressione, interviene nei convegni e nei concerti con i quali vengono presentati dentro e fuori dal carcere i risultati di un seminario permanente avviato 12 anni fa.
"Quello che non ho" è una delle canzoni che la Trsg.band, braccio musicale del Gruppo della Trasgressione, propone più spesso durante i concerti nei quali le canzoni di De André vengono accostate a poesie e riflessioni dei detenuti del gruppo. Spesso i testi vengono letti dagli autori; ancora più spesso, fra una canzone e l’altra, i detenuti intervengono raccontando parte della loro storia, illuminandola con lo sguardo che hanno oggi e proponendola ad un pubblico di cittadini liberi che seguono incantati.
Un racconto di sé è teatro? Chi lo porge al pubblico recita una parte? E se sì, per nascondersi o per cercarsi?
Ho visto tremare davanti a un microfono chi qualche anno prima aveva fatto tremare decine di persone, simulando di avere in tasca una pistola o impugnandone una giocattolo; nei casi più tragici, un'arma capace di scrivere un dolore vero in nome di un’identità falsa.
Le vite che continuo a conoscere in carcere sono tutte così recitate che mi chiedo cosa sia utile chiamare teatro. Mi pare ragionevole, se non altro per gli obiettivi cui mira il laboratorio del Gruppo della Trasgressione, rinunciare a distinguere fra realtà e rappresentazione e adottare un’altra coppia dialettica, cioè le polarità cui punta la recita: nascondersi o cercarsi, pur se è chiaro che anche questo binomio è costituito da estremi che non sono poi così lontani.
Ho constatato in più occasioni che la parte cui risulta di solito più difficile dare la propria voce è quella che richiama più da vicino aspirazioni e ricordi relativi a epoche in cui la recita era appena cominciata. Ho sentito decine di volte la voce del detenuto esitare, barcollare come un bambino ai primi giorni della deambulazione, per poi riprendere la rotta, sostenuto dagli occhi del pubblico, come fossero stati quelli di chi ha visto le nostre prime avventure su due gambe.
Il teatro di cui ho esperienza diretta è quello dove, sostenuto dal silenzio in sala, il ricordo delle proprie aspirazioni riprende forma; quello dove il racconto di sé diventa un vestito per riconoscersi e sul quale sono cuciti insieme aspirazioni di ieri e di oggi, miti personali e cicatrici antiche, piccoli e grandi inganni che continuano a rinnovarsi, ora inseguendo l’identità di chi si racconta, ora spingendola un passo più in là.
La parte che vedo recitare è quella grazie alla quale l’attore tenta di cambiare vestito, di riscrivere nell’hic et nunc il proprio copione, appoggiandosi oggi a uno sguardo amico, per riparare le mancanze inflitte da sguardi di chi in altri tempi si era forse troppo distratto dalle proprie funzioni.