Silenzi sospetti |
Antonio Iannetta | 17-07-2010 |
Ho visto persone giungere al suicidio in modi diversissimi: alcune scientemente si servono di sostanze stupefacenti che qualche volta divengono letali, altre con vari sistemi pongono fine all’esistenza celermente.
Vivo in carcere, in un osservatorio privilegiato del disagio, dove i suicidi sono molto più frequenti rispetto all’esterno. In carcere il suicidio inizia con la privazione della libertà, continua con l’invisibilità e termina con il costante senso di incomunicabilità e abbandono. La maggioranza dei detenuti comprende le condizioni difficili in cui operano gli agenti, ma nessuno è solidale con le condizioni di estrema invivibilità in cui, stremati dal caldo odierno, giacciono i detenuti.
Il carcere odierno è denso di zone d’ombra pericolose, dove tutto ciò che avviene con violenza rimane spesso nascosto. I suicidi attuali sono anche figli dei silenzi, delle omissioni, delle collusioni. Spesso si sottostima la gravità degli episodi che avvengono in carcere.
Da tempo i detenuti non hanno voce, né portavoci; ecco perché il suicidio qualche volta diventa l’unico atto di ribellione ad un sistema che mortifica riducendo al silenzio.