Un Sisifo di paese |
Rosario Giugliano | 24-05-2010 |
Se dovessi raccontare il percorso della mia vita attraverso il mito di Sisifo, allora dovrei dire che provengo da un territorio dove la presenza di Giove (lo Stato) non sempre è stata sinonimo di legalità. Fin da ragazzino mi sono trovato a dover vestire i panni di Sisifo, anche perché molto presto mi sono reso conto che l'uguaglianza tra le persone, tanto decantata, non esisteva.
Anche se i miei genitori, con tanta fatica, hanno sempre garantito un vivere onesto e dignitoso a noi figli, non si sono mai potuti mai permettere il superfluo: niente cinema, niente bici o motorino. Vedere altri ragazzini godere di questi agi faceva crescere dentro di me la rabbia.
Inoltre, vedere Giove, preposto a garantire a tutti pari dignità, fare sfoggio del proprio benessere, era veramente frustrante. In questo modo, per il ragazzino che ero, è prima diventato naturale, poi irrinunciabile, guardare con ammirazione il Sisifo del paese e iniziare presto ad imitarlo.
Commettevo le prime rapine per potermi permettere quello che, poveretti, non potevano garantirmi con la loro onestà vita i miei genitori. Poi, è stato un crescendo, fino a diventare, attraverso la violenza, padrone del territorio e serio interlocutore di una parte del potere costituito. Ovviamente, il potere in quanto tale mi ha condannato per i delitti commessi.
Essendo diventato uno scaltro Sisifo, però, ho cercato sempre di sfuggire all'esecuzione della condanna attraverso due evasioni durante le quali ho vestito anche i panni di Thanatos, commettendo diversi omicidi.
Imprigionato, di nuovo, sono finito negli inferi tra i dannati, carcere e 41 bis, e quando tutto mi sembrava irrimediabilmente compromesso è comparso il mio Orfeo (Vincenzo) che con le sue melodie e il suo rosmarino ha ammansito la belva che c'era in me, convincendo così i responsabili degli inferi a darmi un'altra possibilità.