La scuola

 

Dimitar Georgiev

18-03-2006  

Sono nato in un paesino al confine del mondo. Lo chiamo così per il semplice motivo che si trova in mezzo alle montagne e per arrivare al paese più vicino servono tre ore di cammino su sentieri praticabili solo a piedi o con un mulo. Noi ragazzi, per andare a scuola, percorrevamo uno di quei sentieri tutti i giorni. Era una fatica enorme, ma la voglia di andarsene un giorno dal paese con una buona istruzione era tanta. Eravamo tutti figli di poveri contadini che lavoravano tutti i giorni una terra ancora più povera. I frutti che raccoglievano bastavano appena a sopravvivere, ma nessuno si preoccupava per cambiare le cose.

Un giorno, andando a scuola per uno di quei soliti sentieri, ci venne l’idea di andare dal sindaco del paese per chiedergli di costruire una scuola vicino casa in cui poter studiare. Così il giorno seguente ci presentammo davanti alla porta del sindaco in una dozzina, dal ragazzo più piccolo a quelli, come me, all’ultimo anno. Il sindaco, una persona molto alta e con uno sguardo gelido e severo, ci ricevette. Eravamo un po’ spaventati, ma altrettanto decisi a chiedere una scuola vicina a casa. Marco, così si chiamava il sindaco, dopo aver ascoltato la nostra richiesta, ci guardò col suo sguardo severo e rispose: “Ragazzi, voi chiedete troppo, sapete benissimo che il nostro paesino è povero e non ha soldi per costruire la scuola; sarebbe meglio se andaste ad aiutare i vostri genitori”.

Quello che sentimmo ci deluse tantissimo. Nessuno di noi si aspettava una risposta così. I più piccoli se ne andarono a casa, rimanemmo noi cinque più grandi del gruppo con una forte rabbia e delusione. Il silenzio venne rotto improvvisamente da Michele: “Ragazzi ci dobbiamo ribellare, non possono fare così, qualcosa in questo paese deve cambiare”. Lo ascoltammo, sapevamo tutti che aveva ragione, ma l’unica domanda che ci veniva in mente era come potevamo ribellarci. Augusto, il più serio del gruppo, si fece avanti dicendo: “Ha ragione Michele, dobbiamo ribellarci, ma a modo nostro. Costruiamo noi la scuola con le nostre mani”.

L’idea di Augusto ci trovò tutti d’accordo, ci restava solo da metterla in pratica, ma come? Intervenne Peppe dicendo: “Ragazzi, legno per la costruzione ne abbiamo in abbondanza, ci dobbiamo solo mettere impegno e buona volontà”. Così ci dividemmo le mansioni: Michele e Peppe avevano già una certa dimestichezza con il legno avendo imparato il mestiere aiutando loro zio Giuseppe, falegname del paese; noi altri li dovevamo aiutare nell’impresa mettendo le nostre braccia. Rimaneva solo da andare dal sindaco a chiedere il pezzo di terra, una locazione su cui poter costruire la scuola.

Il nuovo incontro con il sindaco nuovamente non ci entusiasmò molto dato che si intuiva una certa diffidenza nei nostri confronti e nella possibile attuazione del piano di costruzione della scuola. Siccome però noi eravamo determinati, ci concesse un pezzo di terra in fondo al paese. Sapevamo che ci aspettava un duro lavoro e che da soli sarebbe stato difficile farlo, così chiamammo lo zio Giuseppe per darci una mano. Lui era l’unico che credeva nella nostra impresa. Lo zio Giuseppe ci fece il progetto sulla carta: era una struttura con due stanze grandi che dovevano servire da aule e una più piccola in mezzo per il professore.

Erano giorni di duro lavoro, qualcuno di noi col passare del tempo perse l’entusiasmo iniziale, ma ci incoraggiavamo a vicenda e i lavori avanzavano. Un giorno il sindaco, passando vicino al luogo dei lavori, si stupì tanto del risultato che ci offrì una mano fornendoci il materiale per il tetto. Così, anche con l’aiuto del sindaco, la nostra scuola era finita. La scuola ci sembrava bellissima, anche se in realtà era poco più di una grande baracca, ma era importante che le future generazioni avessero la scuola nel paese senza dover fare tutti i giorni il tragitto che dovevamo fare noi.

E i cinque ragazzi di un paesino al confine del mondo vinsero la sfida frutto della loro ribellione.