Le mie appartenenze |
Mario di Domenico | 21-11-2008 |
Ogni volta che entravo in carcere mi chiedevano se appartenevo a qualche organizzazione criminale. Rispondevo di no, ma solo oggi cerco di capire quali sono state le mie appartenenze e perché.
A otto anni appartenevo sicuramente alla mia famiglia, mi riconoscevo nel suo nucleo, ubbidivo e mi sentivo coccolato, non conoscevo altro, ed ero trattato e considerato per l'età che avevo.
Dopo qualche anno, ho cominciato a frequentare i miei coetanei anche nei pomeriggi dopo la scuola, e da quel momento la mia appartenenza ha cominciato a scricchiolare. Non mi riconoscevo più nella mia famiglia, perché loro pretendevano da me sempre comportamenti seri e responsabili e soprattutto perché: "stai zitto, è giusto cosi, hai fatto i compiti? Metti a posto le scarpe, ti sei lavato le mani? Vai a letto che domani devi andare a scuola”. Solo adesso mi rendo conto che erano costretti a farlo per la mia troppa esuberanza.
Queste le cose che mi venivano imposte tutti i giorni. Era quasi diventata un’ossessione, a tavola la sera si parlava solo di me, se avevo studiato e che cosa avevo imparato. La maggior parte delle volte costretto a inventare, perché non avevo neppure aperto il libro e così venivo preso in giro da mio fratello e dalle mie due cugine diplomate che vivevano a casa mia.
La mancanza della figura paterna è stata determinante per la mia formazione. Oggi capisco che la mia povera mamma vedova, stanca di una giornata di lavoro in fabbrica e dopo aver accudito la casa e preparato la cena, non aveva la fantasia di spiegare a Mario il perché di tante cose, ed è per questo che Mario non si sentiva più appartenente alla sua famiglia. Avevo bisogno di essere riconosciuto, considerato ed apprezzato.
Così mi è parso che tutto quello di cui avevo bisogno potevo trovarlo nei miei amici. Mi sentivo importante quando prendevo decisioni e tutti mi ascoltavano. Questi sono alcuni dei motivi per cui la mia appartenenza è cambiata.
La compagnia che avevo a dodici anni non commetteva reati da codice penale, ma era comunque improntata sulla trasgressione: bigiare la scuola, per andare in riva al lago a sciogliere le barche e farci un mucchio di risate, immaginando la faccia che avrebbe fatto il padrone di fronte al posto vuoto, senza la sua barca; rubare le ciliegie, giocare a sassate con la banda dell'altro rione.
Erano alcune delle microscelte che mi hanno fatto crescere con la predisposizione a scegliere sempre la strada storta, quella piena di curve, curve che non mi permettevano di vedere mai il traguardo. È quella la strada che ti fa vivere le emozioni del momento, senza mai pensare al domani, ma è anche quella, che mi ha fatto cambiare varie appartenenze, quella che mi ha portato più volte dietro le sbarre, quella che mi ha fatto trascurare gli affetti più cari.
È difficile cambiare modo di pensare e invertire la rotta quando le persone alle quali credi di appartenere scelgono anch'esse la strada piena di curve, quando non hai tempo per riflettere. Intanto gli anni galoppano, pensi a quando eri giovane e ti dici "ormai è tardi"!
Dici a te stesso che non hai alternative, non riesci a vederne attorno, non vedi le premesse nemmeno per un proposito di cambiamento. Quali mezzi, quali riferimenti?
È da tempo che coltivo la voglia di essere un cittadino, ma solo durante quest'ultima esperienza carceraria credo di avere iniziato un percorso vero grazie al fatto che sto frequentando un gruppo nel quale il confronto e l'arricchimento culturale sono alla base di tutto; un gruppo al quale mi sento di appartenere, composto da persone che, come me, cercano di ritrovare la strada diritta per dare un senso alla propria vita.