La corazza

Massimo Battarin

02-03-2005  

 

Oggi al gruppo ho provato la sensazione di potercela fare, di riuscire a parlare degli albori del mio rancore apertamente, del momento in cui le scelte della mia vita, legate al mio passato, sono giunte a degli esiti ben diversi da come i miei sogni di bambino immaginavano per il mio futuro.

Dino ha parlato di un suo trascorso di vita molto significativo, ha raccontato anche parte del rancore provato per un accadimento del passato. Una volta rientrato in cella, ho letto lo scritto in cui il dott. Aparo parla delle dinamiche del rancore. Mentre leggevo, mi sembrava di riuscire a dar forma alle ombre; tra le righe venivano alla luce i miei fantasmi.

Ero molto piccolo quando continuavo a pormi domande sul perché dei deliri di mia madre, dei suoi stati depressivi, sul perchè mio padre delegasse a me di farle delle iniezioni di antidepressivi quando per lavoro era spesso assente da casa, sul perché mio fratello, undici anni più grande di me, si allontanasse con paura da ogni tipo di coinvolgimento verso la situazione di sofferenza che circondava la nostra famiglia.

Domande e ancora domande a cui non riuscivo dare risposta, mi chiudevo sempre più in me stesso, provavo paura. Non ho mai avuto un amico vero, un punto di riferimento; pensavo come potevo, decidevo, eseguivo. Avrei voluto parlare con qualcuno di tutto questo, ma non trovavo o non vedevo un educatore in grado di ascoltarmi e consigliarmi.

Avevo circa dieci anni quando vidi qualche spezzone del film  “l’esorcista”, cult horror di quegli anni, mi ricordo ancora i deliri di Emily nel film, li associavo a quelli che mia madre viveva nei suoi momenti di dolore, grida alle quali non ero in grado di dare giustificazione razionale. Non ero in grado di capire da dove venisse il suo dolore, non avevo gli strumenti per capire che a volte un dolore grande può essere causato da qualcosa che non si riesce a toccare.

I miei familiari le dicevano spesso: “non hai nulla di cui lamentarti”,  “hai tutto dalla vita” suppongo per confortarla o per poca consapevolezza di quello che realmente stava soffrendo o di cui aveva bisogno.

Mia madre era spesso in preda a forti crisi depressive, aveva nausea della vita, girovagava da uno psichiatra a un altro alla ricerca della panacea per la malattia che da anni l’affliggeva. S’imbottiva di psicofarmaci, ma la cura non l’ha mai trovata.

Era il 22 dicembre del 1992 quando prese la decisione di togliersi la vita, saltando dal secondo piano della casa in cui vivevamo. Io all’epoca avevo circa diciassette anni. Sentii il tremendo impatto e corsi a prestarle soccorso. Chiamammo subito l’ambulanza che arrivò poco dopo.  Il “salto” le aveva rotto due vertebre. Durante la degenza in ospedale era quasi lucida nei ragionamenti, ma non poteva muovere un solo arto. Mi chiedeva perché non potesse muoversi, non ricordava di essersi buttata dal balcone.

Rammento ogni istante come se fosse ieri, il suo viso spaventatissimo e pieno di dolore per ciò che era accaduto e di cui non aveva piena consapevolezza e lucidità. Mi sembra di non esserle  mai stato così vicino come quel lungo mese. Il suo viso è uno dei particolari indelebili di quel periodo. Mi sono sempre chiesto perché non mi sono accorto prima di ciò di cui aveva bisogno e mi dicevo che se solo avessi compreso prima forse avrei potuto aiutarla. La mia età probabilmente non mi ha permesso di comprendere.

Il 15 gennaio 1993 il suo cuore cessò di battere. Osservando gli adulti attorno a me, avevo desiderio di crescere in fretta perché pensavo che non soffrissero come me per aver subito la perdita della mamma. 

Percepivo che mi mancava qualcosa per essere sereno e quella sensazione mi ha accompagnato negli anni, avrei desiderato vivere a pieno gli anni che avevo per l’età reale in cui mi trovavo, ma non mi era consentito. Non potevo giocare come tutti i miei coetanei, dovevo stare vicino a mia madre: lei mi cercava e  mi chiamava sempre. Rimanevo spessissimo in casa da solo con lei.

Mi chiedevo: “dove sei papa? Dove sei  fratello?” Almeno lui in assenza di mio padre poteva svolgere benissimo il suo ruolo di fratello maggiore, pensavo. Forse volevo un rapporto diverso da quello che loro potevano realmente darmi.

Per tanti anni ho provato rancore nei confronti dei miei genitori e verso mio fratello, un sentimento che ho cercato di sopire con un metodo apparentemente funzionalissimo, senza però rendermi conto dei danni che mi avrebbe creato col trascorrere del tempo;  creando una corazza nei confronti di chi mi faceva male senza accorgersi di farlo e successivamente nei confronti del “mondo”.

Dopo la morte di mia mamma mi sono chiuso ancor più nel mio mondo. Mi sono dotato di armatura e di scudo con i quali mi sentivo forte di affrontare ogni situazione. In questo modo pensavo di difendermi da ogni insidia, vedevo l’ipocrisia nelle relazioni, lo schifo, il dolore, la vergogna. Mi era sorto il dubbio di soffrire della medesima malattia che aveva afflitto l’esistenza di mia mamma.

Dopo la sua morte ho vissuto con mio padre e con mia nonna paterna, deceduta dopo pochi mesi anche lei. Mio fratello decise di allontanarsi definitivamente da noi per sue esigenze di lavoro. Io credo che il suo allontanamento fu anche determinato dall’avere attribuito a mio padre la colpa della scelta estrema di mia madre.

La mia “corazza” mi faceva sentire forte, pensavo di poter tenere tutto dentro e di non aver bisogno d’aiuto. Terminai gli ultimi anni di scuola con non poche difficoltà, mi sentivo indipendente da tutti anche nel potere gestire i giorni di presenza scolastica a mio piacimento, andavo a lezione saltuariamente soprattutto l’ultimo anno. A stento sono riuscito a diplomarmi in ragioneria. Finiti gli studi, iniziai subito a lavorare, per un periodo anche con mio fratello, nel suo studio finanziario. All’età di ventidue anni iniziai, prima come hobby, l’attività di consulente commerciale che poi proseguii come impegno lavorativo.

Dopo la consueta giornata di lavoro non mi sentivo appagato totalmente, avevo comunque una percezione del non senso del vuoto, e per conseguenza  ricercavo  forti emozioni. Questo mi ha portato a fare scelte sbagliate, forse con l’intento di vivere quell’infanzia non vissuta. Abusavo di alcol e di hashish, ricercavo divertimenti effimeri, fino al momento in cui sono finito in carcere per aver reagito con violenza durante una rissa, causando la morte di un mio coetaneo. Non mi dilungo sui miei sensi di colpa poiché ve ne ho già parlato, ma non intendo sminuire la gravità del fatto.

Ho desiderio di vivere, amare e gioire di ogni semplice emozione, ma mi rendo conto che per fare questo debbo abbattere la mia corazza eretta tanto tempo fa, forse devo recuperare le relazioni vitali che non sono stato in grado di realizzare.

Desidero ringraziare mio padre, la ragazza che amo Patrizia, i suoi genitori, una famiglia stupenda, per la quale provo amore e che mi fa sentire quel calore familiare in cui credo e che spero possa essere la base per un futuro fatto di normalità e di emozioni semplici.

Ringrazio il timoniere e i miei compagni di viaggio per l’affetto e per la possibilità di socializzare la storia della mia vita.