Conto Arancio

Armando Xijfai

22-01-2005  

 

Ero felice, spensierato, e fino a quel momento la vita con me era stata abbastanza generosa. Avevo da poco compiuto 16 anni, era l’inizio del terzo ginnasio. Ero un bravo studente anche se un pò troppo vivace: cercavo di trasformare le lezioni in uno show personale. Insomma ero l’incubo delle maestre, ma molto amato dai miei amici. Sarebbe stato un anno uguale agli altri se non fosse venuta in classe una nuova ragazza. Cancellò per sempre l’immagine della favola…

Era lì, in disparte. L’anno precedente era stata bocciata. Di solito, quelli bocciati li distribuivano nelle tre classi parallele alla mia. Era strano che lei fosse lì con noi: la nostra classe era composta principalmente da studenti con un’alta media e, quasi tutti, figli di dirigenti del partito o di aziende statali; avevamo in classe pure due figli di contadini e una di un operaio, ma lei era figlia e nipote di pregiudicati.

Ero rimasto abbastanza scioccato anche perché conoscevo bene sia lei che i suoi parenti, anche se credo di non averle mai parlato prima di allora. Era abbastanza carina, pure se con un naso sporgente, alta, vestita semplicemente ma con gusto, sempre con un leggero sorriso triste sulle labbra.

Allora per essere pregiudicato bastava indossare una minigonna o un paio di jeans attillati oppure portare i capelli tagliati alla moda. Ma suo zio, ministro della cultura, aveva fatto ben peggio… aveva permesso che al festival di fine anno (simile a quello di Sanremo qui in Italia) i cantanti nostrani imitassero i Beatles sia nel modo di vestire che nel ritmo della musica. Il suo tentativo di infettare la nostra cultura comunista gli era già costato 13 anni di internamento in campagne sperdute in mezzo alla melma, l’isolamento totale e un lavoro da contadino.

Erano passate settimane ed avevamo quasi dimenticato la nuova ragazza. Evitavamo di parlarle o di chiamarla per nome. Per me era tornata la stessa musica: ottimi risultati, il ruolo da pagliaccio e le scazzottate dopo le lezioni, uno dei miei hobbies preferiti. Una cosa non riuscivo a capire, come mai la nuova ragazza era stata bocciata visti i suoi ottimi risultati. Una volta finite le lezioni, però, quella domanda non me la ponevo più e di lei non mi rimaneva niente, praticamente non esisteva.

Ma un giorno tutto cambiò. Avevamo l’interrogazione di storia delle lettere; fra gli autori del programma scolastico, uno era proprio lo zio della ragazza. Naturalmente speravo di non essere interrogato, ma non immaginavo che la maestra potesse essere tanto cinica. Rivolse gli occhi al registro facendo finta di leggere i nomi. Io guardavo con la coda dell’occhio la ragazza e mi resi conto di non essere l’unico. Mi vergognai, ma non capii il perché.

La maestra fece un nome: non era il mio, era quello della ragazza. Non si sentiva una mosca volare. Lei era in piedi, arrossita e muta. Alle intimidazioni della maestra rispondevano le sue lacrime. Alla minaccia dell’ennesima bocciatura rispose con un respiro affannoso.

Non erano le minacce a farle così male, bensì i nostri sguardi da perfetti idioti che la spogliavano della dignità e dell’orgoglio. Quegli sguardi la bruciavano lentamente, le toglievano la luce facendola sembrare una vecchia di novant’anni. Mi sentii un verme. Il sorriso compiaciuto della maestra mi fece ribollire il sangue.

La ragazza era ancora lì in piedi, incapace di reagire, aspettando rassegnata l’esecuzione, quando si udì il mio nome e cognome. Scattai in piedi ed iniziai l'interrogazione, parlai di tutto, ma evitai di rispondere alle domande sullo zio della mia nuova amica. Presi un 6, ma ero felice. Per la prima volta qualcuno aveva considerato lei come una persona.

Pian piano tra noi si instaurò una delicata amicizia e io scoprii una bellissima persona, molto colta e intelligente. Non ebbi mai il coraggio di dirle che ero uno dei mocciosi che ruppero i vetri della casa di suo zio. Le chiesi perché non avevo mai visto sua sorella sorridere. “Non può sorridere una persona morta” mi disse “quel giorno in cui rispose all’interrogazione una parte di lei morì e niente al mondo le può ridare la sua dignità”.

Le sue parole per me furono un pugno nello stomaco ed ogni volta che mi vengono in mente mi sento male, provo schifo per me e per tutti quelli che come me con stupidità e cinismo avevano fatto morire quelle innocenti ragazze.

Siamo così piccoli davanti alle grandi storie, ma davanti alle piccole storie dimostriamo di non valere nulla.