Lampadina |
Gerardo Gadaleta | 21-09-2009 |
Apro una finestra sulla nicchia per cercare di sciogliere un pezzo di crosta che c’è in me, anche perché io mi immedesimo nel rosmarino, una pianta della natura povera, ma con un profumo ricco e intenso.
Titolo di studio 3° elementare. Non ho voluto frequentare la scuola per mia scelta, i miei genitori volevano che continuassi, malgrado i tempi duri di allora. La mia adolescenza l’ho trascorsa nei sacrifici, oso dire in modo drammatico; a soli 13 anni sono scappato di casa, per un rimprovero di mio padre, che solo oggi riconosco come ragionevole. Oggi faccio queste riflessioni perché ho avuto l’opportunità di frequentare un gruppo che mi dà lo stimolo per aprire una finestra e togliere pezzi di crosta che si sono formati in me. Pur se sono cresciuto selvaggiamente, cercherò nel presente e nel futuro della mia vita di emanare un profumo come quello del rosmarino, semplice, povero che sia.
Sono figlio di contadini, nato in povertà, anche se i miei genitori facevano di tutto per non farci mancare l’indispensabile, cioè il cibo e il vestiario, che ci scambiavamo tra noi fratelli man mano che si cresceva; eravamo 7 figli, 3 maschi e 4 femmine, era dura a quei tempi crescere 7 figli, ma non mi voglio dilungare sull’argomento e neanche esagerare, ma c’era davvero tanta povertà.
Il mio arrivo a Milano avvenne per caso, presi lo spunto del rimprovero di mio padre e mi recai verso la stazione ferroviaria del paese. Mi veniva proprio voglia di salire sul treno per scappare di casa perché ero molto arrabbiato, così decisi di prenderne uno, salii su un treno, senza sapere dove andava e sono arrivato a Foggia. Lì c’era lo scambio del treno, salii su un altro treno, sempre senza sapere dove era diretto, e mi sono trovato a Milano. La stazione mi sembrava un’astronave, non capivo niente, avevo 13 anni ed ero senza un centesimo in tasca. Uscendo dalla stazione, non sapevo bene dove andare, non sapevo nemmeno bene parlare l’italiano, a dire il vero neanche adesso, non sapevo leggere bene e cominciai a camminare dentro alla città, senza una meta.
Avevo tanta fame in quegli anni e cercai i panettieri e i lattai della città perché lasciavano le buste di pane e il latte dietro alle porte dei loro clienti e per sfamarmi prendevo il pane e il latte dietro alle porte, così mi sono nutrito per qualche giorno. Mi ricordo che la prima volta mangiai 30 michette, andavano giù velocemente, erano vuote dentro. Per cambiarmi prendevo i vestiti stesi ai balconi delle case di ringhiera. Intanto si faceva buio e io ero in cerca di un posto per la notte.
Arrivai in Via delle forze armate; di fronte c’erano le “case minime”, una traversa di via Osteno se non ricordo male. Notai una chiesa che veniva chiamata la “chiesa dei poveri”, guarda caso il destino. Cercai un angolo per poter dormire. Dopo qualche giorno che dormivo sui gradini in un cantuccio, il prete si accorse di me e mi fece dormire dentro e potevo prendere un pasto caldo dalla donna delle pulizie.
Mio padre della fuga non sapeva niente, mia madre mi ha coperto dicendo a lui che ero a casa dei suoi parenti, così per lui io ero a posto, nessuno mi cercava.
Dopo qualche giorno conobbi un ragazzo di 2 anni più grande di me, un milanese, Astolfi alias “Lampadina”; faceva il garzone in un negozio di elettricista. Conoscendo lui cominciai a respirare, avevo un amico di cui avevo bisogno anche per potermi muovere in città. Anche se mi faceva arrabbiare perché mi chiamava “terùn”, era un bravissimo ragazzo. All’inizio rubavamo le biciclette, “la spicciola” in milanese, si andava avanti con i piccoli furti, cercavo di mettere da parte lira su lira per non soffrire più di fame, per non farmi mancare quello di cui avevo bisogno.
Sempre Lampadina mi fece conoscere una brava famiglia milanese che mi ospitò, dandomi una stanza della loro casa, in più mi davano da mangiare la sera e dovevo essere puntuale, alle ore 20. Guai se facevo ritardo, si doveva vedere il Carosello, il programma di quei tempi. Per il resto erano discreti, non mi facevano domande pur sapendo quello che facevo. Dopo qualche giorno ci accordammo: dovevo dare loro 1000 lire al mese per vitto e alloggio. Erano bravissime persone, le ho sempre rispettate anche in seguito e siamo rimasti in buoni rapporti.
L’amico Lampadina, io lo consideravo un fratello; lui da adulto subì una delusione d’amore e cominciò a drogarsi. Non potendone più fare a meno dopo qualche anno morì di overdose; io appresi la notizia in carcere, stavo espiando una condanna per rapina, presi molto male la sua morte, gli volevo bene.
Il prof mi chiese tempo fa per quale reato sono stato arrestato. Io gli dissi che sono qui per questioni legate agli stupefacenti e lui mi aggredì come fossi il primo assassino d’Italia. Dopo qualche giorno feci una riflessione, pensai alla mia passata adolescenza e per l’amico Lampadina ho constatato che aveva ragione il prof con il suo commento sulla droga; questa riflessione prima non sono mai riuscito a farla, ma tornando indietro negli anni e pensando al mio carissimo amico, credo che fosse da fare una valutazione, la mia ignoranza me l’ha impedito.
In tutti questi anni non ho valutato l’importanza dei valori della vita, la famiglia; la libertà non puoi sostituirla con la ricchezza, l’affetto e il bene della famiglia non hanno un prezzo, bisogna fare sentire la propria presenza quotidiana, questi sono i valori giusti, vivere insieme ai propri cari.
La mia adolescenza è stata un calvario, per fortuna ho conosciuto una brava donna, mia moglie. Grazie a Dio ho 2 figli stupendi anche se sono cresciuti senza la mia presenza e questo è un neo che mi porterò per tutta la vita, ma sono orgoglioso di loro, che mi hanno dato 3 nipoti meravigliosi, questi sono i valori da considerare.
Vi ho raccontato una minima parte della mia vita, spero di non avervi annoiato.