La rieducazione del condannato tra cronaca e realtà

 

Prof.ssa Mariella Tirelli

14-06-2005  

I delitti efferati attribuiti a persone condannate a pena detentiva nel godimento di  misure alternative o premiali, dei quali parlano le cronache, agitano le coscienze. Si diffonde un sentimento di rifiuto verso gli istituti che, consentendo al condannato un graduale reinserimento nella società civile, si fondano sulla possibilità del suo recupero.

Entra in crisi, nel  comune sentire, l’idea stessa di una finalità rieducativa della pena, relegata nel limbo delle utopie. Nella visione semplificata di larghi settori dell’opinione pubblica, il condannato è allora un “delinquente” a titolo definitivo, senza speranza. Il problema dominante diviene, per la società, quello di isolarlo e difendersene.

Di fronte a ciò, abbiamo anzitutto il dovere di non vedere, nei fatti  denunciati dalle cronache, sintomi indicativi di quanto accade in generale.Gli organi di stampa non ricordano gli esiti favorevoli delle misure alternative e premiali, mentre le statistiche, dal canto loro,  impongono di esprimere una valutazione ampiamente positiva. Se dagli episodi negativi si traesse spunto per restringere l’applicazione delle misure di cui si parla, ciò significherebbe aggravare l’afflittività della pena. Ben lo sa chi frequenta le carceri. Le reazioni  di timore agli episodi negativi di cui si ha notizia è palpabile.

In secondo luogo, va detto con chiarezza che quando il reinserimento del condannato non sia conseguito, ciò non è da imputare al carattere utopico dell’idea che lo persegue, ma a ben altro: alle carenze strutturali di un sistema nel quale i buoni propositi e gli stimoli positivi si scontrano con ostacoli insormontabili. La pena detentiva, ancora oggi, trova applicazione secondo modalità che spesso sembrano andare in direzione contraria con le norme e i principi ispiratori della legge di Ordinamento penitenziario emanata nel 1975. Il contesto si dimostra tanto inadeguato da scoraggiare le coscienze più consapevoli. La speranza che il carcere faccia il  minor male possibile diventa allora l’ultimo rifugio.

Le “patologie” del sistema penitenziario sono note: edifici spesso fatiscenti, sovraffollamento, promiscuità, condizioni igieniche tali da costituire violazione dei diritti fondamentali e della dignità dell’uomo detenuto; personale penitenziario sottodimensionato e non adeguatamente preparato a porre in essere qualcosa di diverso dal puro mantenimento dell’ordine e della disciplina; una burocrazia estenuante; la mancanza di raccordo fra gli Uffici;  i tempi lunghi della giurisdizione preposta all’esecuzione della pena. Ancora, l’incubo dei trasferimenti, la previsione di trattamenti penitenziari differenziati ai quali si sfugge attraverso la “collaborazione”, elevata a valore. Situazioni, tutte, che incidono in modo negativo sulla personalità del detenuto, ne ostacolano la crescita e spesso contribuiscono ad alimentare il senso di “ingiustizia” e il rancore.  Ancora, l’offerta inadeguata delle attività sulle quali il legislatore ha fondato la “rieducazione”, in primo luogo il lavoro.

Se tali inconvenienti fossero anche superati e il detenuto potesse effettivamente accedere agli strumenti della rieducazione, non per questo l’impegno potrebbe ritenersi adempiuto.

Affinché il reinserimento abbia qualche possibilità di successo, è necessario cambiare la relazione fra chi è detenuto e chi “amministra” la detenzione, rispondente oggi agli schemi dell’esercizio di un potere, più che all’esercizio di una funzione (quella rieducativa).  Fra detenuto e figure istituzionali sono necessari una relazione che favorisca la rilettura del proprio vissuto, la consapevolezza dell’illiceità del fatto commesso e delle sue conseguenze, un contatto e una comunicazione utili ad arginare il vittimismo, alimentare consapevolezza dei propri diritti e delle proprie responsabilità. Questo, senza spirito giustificazionista o perdonista, senza indulgere alla cultura del piagnisteo.

L’obiettivo di cui qui si parla non coinvolge soltanto lo Stato e le istituzioni penitenziarie, ma tutta la società che si riconosce nello Stato e spesso si ritrae in atteggiamenti di rifiuto o rimozione. Anche l’autore di un fatto penalmente illecito è parte della società, di noi, del nostro futuro, della aspirazione  a “convivere”.
La società non si giova di un ex detenuto che esce dal carcere sfiduciato o rancoroso, di un ex detenuto che si astiene dal delinquere soltanto perché teme di ricadere nella punizione. Nessuna società può permettersi di disinteressarsi di una persona che, con le porte del carcere alle spalle, vede il deserto davanti a sé.

All’interno di un Istituto penitenziario del Nord Italia è attivo, da qualche anno, sotto la guida di uno psicologo, un gruppo formato da detenuti in esecuzione di pena, studenti universitari di Psicologia e Giurisprudenza, volontari esterni. Del gruppo, che si riunisce due volte la settimana, sono talora ospiti critici d’arte, docenti universitari, esponenti della cultura in genere. I partecipanti confrontano le proprie sensazioni e riflessioni sui temi via via proposti  e chi viene dall’esterno non distingue a prima vista il giovane detenuto dallo studente. Il detenuto abbandona poco a poco ritrosie e diffidenze, racconta e si racconta, si mette in discussione, cresce. Anche lo studente cresce, guardando le proprie difficoltà e paure.

Un contributo, questo di cui si parla, alla rieducazione, un’iniziativa attualmente per pochi, che si misura spesso con diffidenze e incomprensioni, ma estremamente promettente. Sarebbe il caso di assumerla come tema di riflessione.

 

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Note:

* di prossima pubblicazione sulla rivista Diritto penale e processo, 2005,