Ansa | Milano 2-07-2005 |
Riflettere insieme a chi commette reati "fa evolvere il rapporto tra società e devianza più di quanto possano l’osservazione del reo e la pena che il condannato sconta in carcere".La frase è stata scelta dal Gruppo della Trasgressione, che opera all’interno del carcere di San Vittore, come cardine dei lavori del convegno su "Punizione e suoi protagonisti", che si è tenuto oggi a Milano.
Perché la pena diventi parte di un progetto di reinserimento sociale e non un marchio indelebile e "statico" di delinquenza, è stato dunque rilevato, è necessario che gli operatori siano in grado di ascoltare e comprendere la situazione di chi subisce la punizione. La questione sulla quale si sono confrontati gli operatori sociali, i giuristi e gli psicologi che hanno partecipato all’incontro (ma anche alcuni detenuti del carcere milanese ai quali è stato concesso di essere presenti) è tanto semplice, quanto importante: il fine della sanzione, che sia quella dello Stato nei confronti del cittadino deviante o del genitore verso il figlio, deve essere quello di cercare l’interiorizzazione della norma più che la semplice obbedienza.
E il rapporto diventa fondamentale per chi applica la punizione: se infatti per Gloria Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, "la pena deve essere tempestiva, giusta ed esemplare, ma equa" (come nell’idea che fu del Beccaria), è importante anche chiarire come debba comportarsi il giudice nell’applicarla.
"Nella mia attività - ha detto Francesco Cajani, sostituto procuratore del Tribunale di Milano - registro atteggiamenti diversi: da un lato c’è chi vede nel giudice soltanto la bocca della legge, dall’altro chi ritiene che il giudice debba sentirsi coinvolto al momento di comminare la pena". Secondo Cajani, il giudice dovrebbe cercare di comprendere chi ha davanti, cosa che invece "è troppo spesso delegata alla magistratura di sorveglianza".L’idea di fondo, che Cajani condivide con il teologo Guido Bertagna, è che "la pena debba rappresentare un percorso e non un marchio indelebile per il detenuto". È chiaro, però, che è più facile per l’educatore e per chi gestisce gli istituti di pena conoscere personalmente i soggetti, "piuttosto che per chi - ha aggiunto Cajani - si trova ad avere a che fare con migliaia di fascicoli".
Il ruolo dell’educatore è dunque centrale in quel percorso che vuole fare del detenuto un soggetto da reintegrare nella società. Secondo lo psicanalista Enzo Funari, infatti, "solo il sentirsi compreso può generare un cambiamento nel condannato".