Cosa possiamo condividere?

Fabio Licciardi

11-04-2004  

Lunedì al gruppo ho conosciuto il quadro di Rembrandt: “il figliol prodigo”. Per me era un dipinto come tanti altri, per questo lo guardavo con indifferenza. Ascoltando la presentazione del Professor Zuffi e le impressioni dei miei compagni, ho cominciato ad osservarlo con attenzione; la maggior parte di loro erano attratti dalle figure in ombra.

Anch’io sono rimasto colpito da quelle tre figure, esse m’incutevano soggezione, mi mettevano a contatto con le mie paure, tanto che, quando è arrivato il mio turno di parlare, mi sono bloccato. La mia reazione è molto condizionata dalla possibilità di un rifiuto da parte della società per il mio passato.

Nel quadro vedevo una divisione: da una parte due persone pronte a lasciarsi le vecchie ferite alle spalle; dall’altra, tre figure attaccate al passato, che rifiutano di conoscere il nuovo giorno. Guardando le tre figure in ombra, identifico nelle loro espressioni della gente comune che, stanca delle ingiustizie, si indispettisce per le decisioni di chi sa perdonare.

Riflettendo sull’omonima parabola del vangelo mi rendo conto di come non basti il “perdono” delle persone care per non rimanere schiacciati dal proprio senso di colpa, ma sia necessaria anche la comprensione della gente comune. D’altra parte, come si possono ignorare le perplessità e i sentimenti di chi rimane indifferente al cambiamento di una persona pentita del proprio errore?

Il padre che abbraccia il figlio è spinto dall’amore, che è più forte di ogni tradimento; così è avvenuto nella mia famiglia che, nonostante la delusione e il dolore per me, mi è sempre stata vicino. Sentirmi figlio dei miei genitori mi è facile, quello che trovo difficile è sentirmi figlio della società; mi spaventano l’indifferenza e l’emarginazione che mi attendono per il mio errore; non so se riuscirò mai ad affrontarle.

Mi accorgo che, man mano che vado avanti, la mia paura cresce e la speranza diminuisce. Vorrei cambiare il passato perché ciò permetterebbe a “Pippo” di essere ancora vivo e a me di avere davanti una vita da ragazzo normale. E’ troppa la paura che questo macigno mi renda diverso per sempre.

Non so se merito il perdono, ma è certo che mi sento in colpa per quello che ho fatto. Spero che il futuro mi permetta di vivere il mio dolore senza negarmi qualche sorriso da condividere con le persone che mi circondano, il sorriso che le figure sulla destra del quadro non concedono.

Nel mio cammino mi sento come il “figlio” dipinto da Rembrandt, esattamente nel momento in cui, dopo essersi reso conto degli errori fatti, non sa come farsi perdonare. Sono certo solo del fatto che voglio lavorare per migliorarmi. Voglio ringraziare tutti voi per avermi accettato dandomi il calore di un “abbraccio”.