Una scena e tante trame

29-03-2004, Incontro col prof. Stefano Zuffi
su "Il figliol prodigo" di Rembrandt

Antonella Cuppari

30-03-2004  

 

 

Cenni sulla vita di Rembrandt

Harmenszoon van Rijn Rembrandt nasce a Leida, paesino olandese, nel 1606. Orgoglioso e ambizioso, è sempre in competizione con i suoi maestri nella pittura. Nelle sue opere desidera affrontare temi diversi, in tutti i formati possibili, andando anche contro le richieste del mercato. Rembrandt è un artista molto indipendente e si allontana presto dalla scuola olandese.

Nei primi anni della sua carriera di artista la sua fama cresce rapidamente e questa fase della sua vita viene coronata da eventi positivi, tra cui il matrimonio con Saskia, nel 1634. Nel 1642, però, la moglie muore a seguito della nascita del figlio Tito; a questo evento seguono tutta una serie di disgrazie, sia economiche che affettive, tra cui, la morte del figlio nel 1668. Rembrandt non si riprenderà più da questo episodio e morirà l’anno successivo.


L’opera d’arte

Quest’opera rappresenta il momento del ritorno del figliol prodigo, descritto nel vangelo di S. Luca e viene dipinta proprio nel periodo seguente la morte del figlio Tito.

In questo dipinto –ci dice il prof. Zuffi- non è rappresentato solo un padre che riaccoglie il figlio, ma anche un padre, Rembrandt stesso, che vorrebbe avere ancora un figlio da accogliere.

Come nella parabola, il protagonista non è qui il figliol prodigo, bensì il padre. Un padre che stringe a sé il proprio figlio con mani desiderose di quel contatto. Due mani diverse, una più femminile e piccola, l’altra più maschile e grande, forse proprio perché Rembrandt è stato per suo figlio madre e padre insieme.

Le tre figure sulla destra appaiono come persone critiche e giudicanti, che rimangono distanti dall’emozione dei due protagonisti.

 

 

Ricostruzioni personali

Quando ieri ho guardato quest’opera, come primo ricordo mi è venuto in mente un episodio di quando ero bambina.

Stavamo giocando io e le mie due sorelle, quando Katia, la più piccola, ruppe un sopramobile a cui mio papà, che stava lavorando in negozio, teneva molto. Ci sentivamo colpevoli, eravamo agitate, non sapevamo come dirglielo, aspettare fino a sera ci sembrava intollerabile. Così proposi di simulare un processo, telefonai a mio papà in negozio e gli chiesi di salire in casa per un’urgenza. Intanto le mie sorelle avevano posto una sedia davanti alla porta d’entrata: la “colpevole” avrebbe dovuto simulare un pianto disperato; io, in veste di avvocato, avrei dovuto spiegare l’accaduto; Roberta, l’altra mia sorella, avrebbe aperto la porta e fatto entrare il “giudice”. Il giudice –ricordo- entrò, vide la messa in scena e ci sculacciò tutte quante. Poi papà, come era solito fare dopo le sfuriate, ci venne a “spiegare” che lo aveva fatto per il nostro bene.

Non so perché un’opera così intensa e problematica mi richiami un ricordo che io sento divertente. In ogni caso, i ricordi e le letture degli altri membri del gruppo mi hanno fatto tornare indietro ad un’epoca in cui sentirsi colpevoli insieme era più divertente che liberarsi della colpa grazie ad un capro espiatorio.

Cosimo ha visto nel dipinto la separazione tra una parte sinistra, intensa, fatta di contatti e sensazioni, e una parte destra, più fredda e distante. I personaggi sulla destra osservano quello che sta accadendo, cercano di capire, giudicano, misurano; sembrano incarnare, come Zuffi ha fatto notare, il timore che l’errore commesso dal figlio possa riprodursi.

Aparo ricostruisce l’interrogativo che lo sguardo di queste figure pone al padre: “Come mai perdoni e dai più attenzione al figlio che ti ha tradito e non a chi ha contribuito a portare avanti i nostri interessi?”. Un interrogativo che si pone lo stesso figliol prodigo: “Come mai mio padre mi abbraccia, mi veste con abiti lussuosi, fa festa, quando, a causa di ciò che ho fatto, meriterei di vivere insieme ai suoi servi?”. Stupore, rabbia, gelosia, rifiuto sono i sentimenti umani che si sollevano di fronte a questa apparente ingiustizia.

Marcello legge nell’abbraccio non solo un figlio che, dopo avere sbagliato, torna dal padre, ma anche un padre che, dopo aver causato l’allontanamento del figlio, placa finalmente il suo stesso dolore e il suo senso di colpa, riabbracciandolo. L’abbraccio, in questa prospettiva, permette sia il recupero del figlio che quello del padre stesso.

I sentimenti dei due protagonisti sono così intensi da non lasciare spazio al giudizio, che quindi si sposta sulla destra della scena. Proprio per questo, Fabio sente queste figure intrusive; a suo avviso, esse giudicano una cosa che non spetta a loro giudicare: “ … quelle tre figure mi sembrano la materializzazione delle paure del figliol prodigo e dei suoi interrogativi, ma forse, ancor di più, delle mie domande e dei miei timori”.

Ma come mai nessuno dei personaggi rappresentati osserva il volto del padre? Come mai le persone che si interrogano sui sentimenti del padre possono essere soltanto esterne al quadro?

Proprio il volto del padre, disatteso dagli altri personaggi sulla scena, colpisce Livia: “… la luce mette in risalto il suo volto e i suoi sentimenti, ma io avrei preferito che il protagonista fosse il figlio e non la sofferenza del padre (che in questo caso possiamo riconoscere anche in Rembrandt stesso impossibilitato ad abbracciare il figlio Tito morto da poco). Sono anche irritata perché sento il bisogno che quelle tre persone entrino in comunicazione con le altre due.”

Una possibile interpretazione della scena –aggiunge Aparo- vede nel padre/Rembrandt una persona che chiede alla morte la restituzione del figlio, ma questa (le figure sulla destra) risponde ricordando l’inappellabilità della condanna emessa: “non si torna indietro dallo strappo della morte”; uno sguardo sembra più crudele (la figura seduta), l’altro più austero ed equilibrato; non cambia la sentenza, cambia forse il modo in cui vi si può interagire e la si può elaborare internamente. La morte, che Marta vede nella figura femminile che sta alle spalle del padre, verrebbe –in questa lettura- riaffermata con caparbia crudeltà dalla figura col cappello nero, e più serenamente confermata dalla figura in piedi.

Altre letture colgono invece nell’atteggiamento delle due figure sulla destra del quadro timore, rispetto, ammirazione per un gesto di fronte al quale non ci si sente all’altezza. In questa prospettiva, le due figure se ne starebbero indietro, non perché disapprovino il comportamento del padre, ma perché gravate da un misto di sentimenti che vanno dall’ammirazione rispettosa verso la grandezza della scena sotto i loro occhi alla rabbia verso se stessi per non essere in grado di provare un sentimento analogo.

Mi vengono in mente le prime volte che sono entrata in carcere a frequentare il gruppo. Mia madre si chiedeva cosa mi potesse spingere a riaprire ferite e ricordi relativi alla mia infanzia rubata e a un papà perduto. Io stessa mi sentivo in colpa, mi sembrava di fare un torto a mio padre, sentivo il suo interrogativo: “Cosa ti spinge a metterti in relazione con persone che hanno colpe simili a coloro che mi hanno ucciso?”

Ora con mia madre parlo di quello che faccio al gruppo, e da poco tempo anche di mio padre, di quello che gli è successo, delle emozioni che ho provato. Ma ciò che più mi fa stare bene è ricordare frammenti della mia infanzia, episodi divertenti di quando mio padre era vivo, come è successo con questo dipinto.

Tante volte ci si priva della vita, negandosi alle relazioni, concentrandosi sulle colpe proprie e/o degli altri piuttosto che sul desiderio di ciascuno di venire riconosciuto e di raggiungere le proprie mete.

Quando questo succede a me, mi trasformo in quei tre personaggi che cercano di capire, che misurano, cercano le risposte. Risposte che io stessa mi nego nel momento in cui decido di fare il giudice.