La nicchia | |
Bruno De Matteis | 05-09-2009 |
Da quasi un anno faccio parte del “Gruppo della Trasgressione”. La sua forza è quella di saperci rappresentare con gli argomenti più vari. A volte parliamo anche di fatti personali e non mancano i disaccordi. Il coordinatore, guida e complice delle discussioni, spesso fa di tutto per fare emergere fra noi idee diverse, valorizzando poi aspetti interessanti dei nostri discorsi.
Tempo fa discutendo del suo ruolo al gruppo, Gualtiero gli attribuì una funzione importante, arrivando a dire che lui ci aiuta a diventare uomini. Da delinquente con una personalità ben strutturata (così, a ragione, mi ha definito recentemente il dott. Aparo in una relazione che gli avevo chiesto), risposi di getto che non ero d’accordo, che a 55 anni non avevo certo bisogno di incontrare il gruppo per diventare uomo. Non pensai molto prima di parlare, forse parlò l’istinto del vecchio carcerato. Guardando i volti di Gualtiero e di qualcun altro, ebbi l’impressione che le mie parole erano state poco gradite, ma eravamo già alla fine dell’incontro e non ebbi la possibilità di chiarirne il senso.
Ho aspettato con pazienza quasi tre mesi che quel discorso tornasse al nostro tavolo e così è successo. Il 2 settembre scorso eravamo alla prima riunione dopo la sospensione estiva e si parlava molto liberamente. Gualtiero si sofferma su quanto potrebbe mancare Bruno Turci al gruppo qualora partisse per altro carcere, pur se per ragioni condivisibili (i suoi studi universitari); dice che Bruno riesce a fare da collante tra di noi perché prova a collegare in un discorso organico le affermazioni che tante volte gli altri del gruppo fanno in modo non del tutto chiaro; aggiunge poi dei commenti sull’importanza di Silvia e conclude soffermandosi sulla responsabilità che il dott. Aparo ha avuto sul suo cambiamento.
A quel punto chiedo la parola e torno su quello che da tre mesi aspettavo di chiarire. Spiego che quel giorno, quando si era parlato di evoluzione personale, intendevo dire che, se si partecipa con serietà, tutto il gruppo aiuta a far riflettere, analizzare, auto realizzarsi e mettersi in discussione. Per il dott. Aparo, anche per la sua esperienza professionale, è facile colpire qualche nervo scoperto. In effetti, a volte ti fa sobbalzare dalla sedia perché non ci si aspetta di essere così scoperti… lui recupera qualche parola che dici magari senza pensarci e, puntuale, scaglia la freccia.
Ritengo che ognuno di noi ha qualcosa di bello o di brutto racchiuso dentro: una nicchia che non vuoi esporre a nessuno, anzi col tempo cerchi di proteggerla, creandogli attorno una corazza, come se non bastasse quella nicchia. Io, per esempio, ci ho messo 6 anni per parlare di un dolore che mi ha colpito. Quei 6 anni avevo racchiuso nella nicchia il mio dolore e l’ho protetto da tutto e da tutti, perfino da mia moglie, quando proprio con lei avrei dovuto condividerlo e affrontarlo… e invece era la prima che scansavo…
Solo chi studia quei mezzi pazzi che a volte noi siamo riesce a farti scoprire quello che hai dentro. Io l’ho capito 4 anni fa con un altro psicologo nel carcere di Fossombrone che fu capace di farmi aprire una mia nicchia. Lo stesso fa il dott. Aparo, che coglie al volo qualche mezza frase finché non ti colpisce con le sue frecce. Poi diventa più facile esprimerti, guardare da vicino quello che hai dentro la nicchia e, magari, metterlo sul tavolo con gli altri.
Se tutti assieme riuscissimo ad aiutarci l’un l’altro, alla fine sarebbe una vittoria per le due parti, per il detenuto che finalmente ha aperto delle finestrelle ingabbiate e per il dottor Aparo che ne ha trovato la chiave. Se avviene questo abbiamo vinto noi e ha vinto la società che un giorno dovrebbe accogliere il detenuto. Quel detenuto sarà più sereno e con una visione diversa… forse un uomo che vuol ricominciare a vivere senza nicchie e finestrelle ingabbiate.
Mi auguro di essere stato più chiaro.