Le nostre domande sul male |
Redazione | Verbale dalla riunione del | 14-04-2007 |
Aparo:
Karim:
Da una riunione del gruppo femminile:
Giulio:
Silvia:
Secondo:
Mirko:
Vito:
Alessandra:
Livia:
Enzo:
Aparo: Le domande che ci poniamo non debbono essere confezionate per essere rivolte agli altri. A un convegno occorre portare le domande che ci incuriosiscono e per le quali noi stessi cerchiamo una risposta, anche se, ovviamente, è gradito che anche altri ci aiutino a rispondere o a migliorare le nostre domande. Inoltre lo scopo principale di questo convegno non è fare riflettere la persona sui propri errori o ricostruire come si è giunti a fare del male; anche se questi quesiti sono accettabili. La domanda centrale è più radicale: Che cosa è male per ciascuno di noi? Ed è un domanda che riguarda tutti, cui ci si può dedicare insieme e per la quale ciascuno può portare il proprio patrimonio di esperienze, conoscenze, immagini ecc.
Livia: Riassumo alcuni punti dell’incontro di 2 settimane fa, in cui abbiamo raccolto le immagini che ciascuno aveva associato a male e ad alcune corrispondenze che abbiamo trovato. Il male è abuso di potere su qualcuno che viene reso impotente. Nelle immagini di due settimane fa il male era quasi sempre riconducibile ad una relazione in cui qualcuno usa la sua forza per schiacciare una persona (di solito un bambino) che non può difendersi, ad esempio la punizione del balcone. Inoltre è facile immaginare che chi abusa del proprio potere si sia sentito, a suo tempo, anche lui impotente, e che per superare questa condizione esercita ora il suo potere – in un circolo che si perpetua. Esempio, la sveglia che ho gettato e rotto. Come è che è irresistibile? Perché il male rappresenta uno strumento? E’ un tipo di potenza completamente all’opposto rispetto a Enzo che studia e lavora per gli alunni in una scuola nell’ottica ecc. ecc. In questo caso il potere Enzo lo sfrutta per promuovere la crescita; il rendere impotente equivale ad impedirla.
Silvia: Quindi il circolo di cui parla Livia comprende contemporaneamente abuso di potere e senso di impotenza. Il potere può esprimersi in due modi: il potere che porta all’impotenza dell’altro e quello che alimenta la potenza dell’altro.
Aparo: Un potere che mortifica e uno che attiva le risorse dell’altro.
Enzo: Qual è il fattore principale che ti fa riconoscere di fare male?
Gio:
Con lo schema ricostruito da Livia, abbiamo un modello che ci permette di riconoscere il male dal di fuori. Ma forse il male lo sente e lo riconosce più facilmente dentro di sé chi lo subisce, chi è reso impotente piuttosto che chi esercita l’abuso. Non è facile riconoscere l’impotenza che causiamo; ad esempio rimanendo oppositivo, chiuso o triste a tavola, faccio passare agli altri la voglia di scherzare o perfino di parlare, ma non riconoscerò che questo avviene a causa mia – anzi facilmente darò la colpa agli altri. Alle medie tendevo a darmi la colpa della mia esclusione dagli altri compagni, mi sembrava che il mio isolamento, il mio senso di impotenza fossero una mia responsabilità, una mia vergogna; in generale una cosa mia. Non è detto che non fosse per buona parte così, ma escludevo che la cosa potesse dipendere anche dall’azione di altri. Paradossalmente, mi sono sentito più responsabile (anche se in maniera distorta) quando ho subito che quando ho fatto subire l’esclusione e l’impotenza. Forse questo c’entra col piacere del male, col suo fascino e con l’inclinazione a replicarlo.
Enzo: Si può individuare una soglia oltre la quale la quantità di male subito porta alla voglia di far male?
Aparo: Credo di no. Penso piuttosto che si cede alla forza invasiva del male fino a replicarlo, soprattutto in relazione al fatto che il male subito sia riuscito a spegnere la forza creativa che ognuno di noi ha. Non credo che si diventi protagonisti di abusi in relazione alla quantità di mortificazione subita, ma piuttosto in relazione al fatto che gli abusi subiti risalgono ad un’epoca in cui la persona non aveva ancora le risorse per reagire creativamente alle mortificazioni.
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