Incontro con gli studenti del Vespucci

Livia Nascimben

  27-03-2008

All’interno del progetto di “Educazione alla legalità” che coinvolge diverse scuole medie superiori di Milano e la Casa Circondariale di San Vittore, il Gruppo della Trasgressione incontra una classe dell’Istituto Alberghiero A. Vespucci.

Aparo: Il carcere è un luogo dove scontare la pena. Nel corso dei millenni il significato della pena si è modificato. Per te “pena” cosa vuole dire?

Studente: Rieducare.

Studente: Rieducare chi ha commesso qualcosa di sbagliato contro la legge.

Aparo: 400 anni fa la rieducazione non era contemplata.

Antonio (studente): Per me pena significa pagare per ciò che hai fatto.

Aparo: E’ un concetto diverso. In che senso la vedi diversamente?

Antonio: Tu paghi e sei privato della libertà e intanto fai le scuole per essere rieducato.

Studente: La pena è una punizione da pagare perché non hai rispettato la legge.

Studente: Sono d’accordo, pena vuole dire rieducare ma anche pagare davanti alla legge.

Elena (studentessa): Pagare per il reato che hai commesso.

Aparo: A chi paghi?

Elena: Allo stato.

Aparo: E cosa paghi?

Elena: Paghi… ti privi della libertà stando rinchiuso, scontando la pena.

Aparo: Tu, se vai dall’ottico per comprare un paio di occhiali, paghi con degli euro che il negoziante usa per mangiare. Facciamo finta che fai un reato o che prendi a calci tua sorella o qualcosa per cui a qualcuno viene voglia di punirti, che rapporto c’è tra il pagamento nell’accezione di Elena e il pagamento degli occhiali?

Enrico (studente): Paghi con la sofferenza.

Studente: E con il tempo, con la libertà.

Studente: Se compio un reato contro una persona, pago con la mia libertà. Rinuncio alla mia libertà, in cambio lo Stato sta al sicuro.

Studente: Rinunci anche al tuo tempo.

Aparo: Lo Stato con la sofferenza di cui parla Enrico cosa si compra?

Francesca (studentessa): Educa la società.

Aparo: Il detenuto che paga con la sofferenza cosa guadagna?

Studente: Il detenuto non acquista nulla, magari impara a non fare più reati. Lo Stato non fa niente con la sofferenza ma intanto rieduca.

Aparo: Facciamo un piccolo riassunto: ci sono diverse opinioni su come intendere la pena, c’è chi la intende come rieducazione, chi come pagare con anni di sofferenza, chi con anni di privazione di libertà. La sofferenza è una sorta di pagamento?

Studente: Sì.

Aparo: Per acquistare cosa? La sofferenza del detenuto va a beneficio di chi?

Francesca: Della società.

Studente: Anche del detenuto. Serve alla società per garantire la sicurezza e al detenuto per comprendere l’errore.

Aparo: E se non lo comprende?

Studente: Dovrebbe stare dentro di più.

Aparo: Come comprende?

Studente: Con il vostro aiuto.

Aparo: Ma cosa deve capire?

Studente: Che ha sbagliato, che deve rispettare la società.

Lorenzo (studente): Una persona in carcere non ha più possibilità di incontrare nessuno, sconta la pena facendosi aiutare in una riflessione personale.

Aparo: Da quello che dite, credo di avere capito che complessivamente la sofferenza serve perché costituisce una sorta di retribuzione per il fatto che uno ha prodotto un danno. Inoltre la sofferenza ha come scopo di ricavare che quella cosa non è da fare.

A questo punto la domanda è: il detenuto capisce cosa e come? Avete detto attraverso delle attività. Per voi è fondamentale che il detenuto capisca. Ma cosa?

Studente: Che ci sono delle leggi, che se vai contro le leggi vieni punito.

Aparo: Facciamo che siamo in un posto dove non si può tenere il cappellino in testa (la ragazza a cui si rivolge indossa il cappellino), questa legge per te è importante o ti è indifferente? Questa legge ha un criterio o no? Secondo te è importante avere cognizione del principio della legge, di quali sono gli obiettivi della legge?

Laura (studentessa): Gli obiettivi delle leggi sono fare vivere, fare mantenere un tipo di comportamento, fare in modo che ci sia un tipo di comportamento per tutti. Le leggi servono a tutelare le persone, il benessere delle persone.

Aparo: Per te è indifferente o significativo avere cognizione della logica delle leggi?

Laura: Se ho cognizione le seguo, se non ho cognizione può capitare che dico che per me non è giusta e ci vado contro.

Aparo: Abbiamo detto che c’è un reato a cui segue una pena, per alcuni la pena deve essere sofferenza affinché la società sia ripagata, per altri deve essere rieducazione affinché il detenuto maturi e acquisisca il rispetto di leggi finalizzate a tutelare la convivenza tra le persone.

Ora potremmo chiedere ai detenuti, o anche a noi stessi, cosa ci passa per la mente quando commettiamo un’infrazione. Forse che non sappiamo che la legge tutela?

Davide (studente): Al momento non ci pensi, segui l’istinto.

Studente: Ci sono delle differenze, c’è chi commette un’infrazione perché vuole e chi lo fa perché non ci pensa. Dovrebbero esserci dei metri di giudizio diversi. C’è modo e modo di commettere un’infrazione e c’è modo e modo di dare una pena.

Studente: La pena serve anche per non commettere errori di altri.

Aparo: Cosa vogliamo chiedere ai detenuti?

Studente: Se stanno ragionando.

Francesco: Il carcere non è solo mio che sono detenuto ma è anche vostro. Noi stiamo studiando per evitare che ragazzi come voi entrino in carcere.

Pasquale: Non ho tutelato né il benessere degli altri né il mio e non me ne sono reso conto.

Aparo: Nel senso che era stupido?

Pasquale: Nel senso che si era rotto il rapporto con la collettività. Se ti riconosci nel sistema ti senti parte del mondo. Con il reato si crea una frattura. La frattura era già presente dentro di me, è successo qualcosa prima del reato che ha minato la possibilità di sentire e tutelare il benessere nelle relazioni. Addirittura il reato era diventato per me la scelta giusta, gli altri non contavano più, non esistevano e tutto diventava lecito. La relazione è come un giardino, deve essere curata; col reato prendi i frutti fregandotene di tutti.

Vi racconto una mia esperienza. Mio nonno mi rendeva partecipe in quello che faceva, mi faceva sentire protagonista e io potevo imparare da lui, mi faceva provare il piacere di esserci; mio padre cercavo di evitarlo perché le sue indicazioni erano imposizioni. Solo che a casa mia la legge era mio padre, non mio nonno, ma con lui non c’era comunicazione. Così ho cercato fuori dalla famiglia tutto ciò che poi non ho trovato.

Aparo: Tra le tante cose che Pasquale ha detto, c’è che tendenzialmente lui non sentiva importante la collettività da tutelare perché non si sentiva parte significativa della collettività. D’altra parte abbiamo detto che è importante che con la pena si maturi il senso di collettività. Allora, quali sono gli strumenti e le condizioni di cui si dispone per raggiungere questo obiettivo? La domanda è chiara?

Studente: Quali sono i mezzi per rieducare?

Aparo: Perfetto! Quali sono i mezzi per sentirsi parte della società.

Esposito (Agente di Polizia Penitenziaria): L’obiettivo della pena è reinserire la persona recuperata nella società. Oggi, a differenza di un tempo, questo è possibile anche con la collaborazione dei cittadini liberi che entrano in carcere per partecipare a diverse attività. Uno strumento fondamentale, oltre al lavoro da fare in Istituto, è sensibilizzare la società esterna o la pena perde di senso. In Istituto si può lavorare con le persone di buona volontà, ma serve poi un aggancio fuori.

Riguardo alla pena come sofferenza dico che chi soffre e basta stando qua, una volta fuori dal cancello si dimentica della sofferenza. Se la sofferenza avesse un impatto sul detenuto non ci sarebbero le recidive.

Aparo: Il sig. Esposito ha espresso diversi concetti:

Occupiamoci della pena dentro. Quali sono gli strumenti utili? Ne potremmo avere di migliori? Come vengono utilizzati quelli che abbiamo?

Esposito: Il problema è a monte, noi lavoriamo sulla quantità, non sulla qualità. Chi è in attesa di giudizio non è sottoponibile a un trattamento ed è difficile fare rieducazione, soprattutto qui che siamo in una Casa Circondariale.

Da quanto ho osservato il Gruppo della Trasgressione vedo che al gruppo i detenuti vengono per il piacere di apprendere, mentre spesso la partecipazione alle altre attività corrisponde a un momento di evasione dalla cella. Le attività svolte in carcere sono potenzialmente strumenti per il recupero.

Aparo: L’agente Esposito chiama a una riflessione. Al gruppo accade qualcosa per cui sembra che i detenuti acquisiscano una motivazione a impegnarsi. Il compito che Esposto ci chiede è contribuire a decifrare quali sono gli elementi che funzionano.

Mario: La Legge prevede che la ricostruzione di sé avvenga nella fase di custodia definitiva; io che sono in custodia cautelare scelgo di essere qui perché mi conviene. Il gruppo è uno degli strumenti in carcere. Al gruppo si parla in modo diverso rispetto ad altre attività, si ricostruisce la propria identità attraverso il confronto e lo scambio.

In passato non mi ero mai posto il problema di rifare me stesso, di riconoscermi, di rifarmi un’identità. Sul tavolo vengono messi i problemi, le illusioni, la voglia di costruire di ognuno che diventano spunti di riflessione per altri. Mi sono dato un’identità, mi riconosco, mi sto ricostruendo, sto recuperando le cose perse, dimenticate, mai avute. Prima per me la sfida era contro l’Istituzione, oggi è diverso perché abbiamo parlato, perché abbiamo confrontato le nostre emozioni.

Faccio un esempio. Al gruppo vengono spesso degli ospiti esterni, professionisti di diverse discipline. Uno per me speciale è lo storico d’arte Stefano Zuffi. Di solito lui racconta un quadro e noi ci confrontiamo su ciò che abbiamo sentito e visto. Mi è sempre piaciuta l’arte, sono stato un ladro d’arte. A rubare mobili antichi e quadri sono diventato un esperto d’arte ma non ero mai entrato in ciò che volevano comunicare i diversi autori. In questo periodo stiamo lavorando al progetto “La chiamata”; in particolare abbiamo commentato due dipinti: “La creazione di Adamo” di Michelangelo e “La chiamata di San Matteo” di Caravaggio, in uno Dio chiama l’uomo alla vita, nell’altro Gesù chiama Matteo a fare l’apostolo.

Io sono entrato nel quadro, ma non per vedere la qualità della tela, per scoprire me stesso.  Nella vocazione di Matteo, Gesù indica Matteo e io mi sono visto in Matteo che punta in dito verso se stesso come a dire “Chiami proprio me? Ma perché?”. Matteo era benestante, poteva scegliere di non andare. Anche io mi sono trovato a compiere delle scelte, anche io avevo delle chiamate, dai miei figli soprattutto, ma non le vedevo o non le volevo/potevo vedere. Spero un giorno di rispondere alle chiamate dei miei figli e di dare un senso diverso alla mia vita.

Questo è uno dei modi per spiegare cosa si fa al gruppo.

Pasquale: E’ da circa 36 anni che frequento questo circuito. Avevo standardizzato la mia vita, entravo e uscivo dal carcere ma senza sentimenti. Se non sei libero nel rapporto con gli altri non serve oltrepassare la porta del carcere per essere liberi. Per me il gruppo è un laboratorio di ricerca e di studio; discutiamo diverse tematiche che riguardano l’uomo e le sue relazioni.

Per tornare a quanto diceva Mario, quando descrivi i personaggi presenti in una tela vengono fuori cose di te che non conoscevi più come se fossero state sepolte. Compiendo certe scelte metti in un angolo delle parti di te vitali, le soffochi. Un obiettivo del gruppo è mettere in comunicazione queste parti con l’energia negativa del reato e vedere cosa succede.

Aparo: Ho desiderio che venga valorizzato l’impegno di questi tre gruppi di persone, gli studenti della scuola, i membri del gruppo e gli agenti. L’agente Esposito ha detto che ci sono degli elementi specifici che permettono alle persone del gruppo di acquisire una motivazione; Laura ha parlato della necessità di fare strada per riconoscere l’importanza della tutela del benessere collettivo; anche a 16 anni ci sono cose che motivano e altre meno. Chiedo a chi interverrà di tenere conto di questo.

Rudy: Torno un attimo indietro nel discorso. Il detenuto si sente come in diritto di commettere reati: la pena dovrebbe fare capire perché ci si è persi e poi riacquisire lo spazio per sentirsi cittadini e il desiderio di volere migliorare.

Insegnante: Ha detto che vuole migliorare ma cosa ha fatto scattare questa voglia di migliorare?

Rudy: Lavorare su di me. Ho avuto la possibilità di incontrare persone con cui insieme ho fatto luce su certe idee.

Insegnante: Cosa fare perché le persone possano avere la voglia di migliorare? Quali sono gli elementi che motivano?

Livia: Secondo la mia esperienza motiva a migliorare sentirsi e diventare importanti per il gruppo; impegnarsi per dare il proprio contributo per un obiettivo che non è solo individuale ma collettivo, come può essere oggi cercare di fare andare bene l’incontro. E mentre ti impegni, scopri che ti diverti, che hai delle competenze che prima non pensavi, diventi curioso di scoprire, cerchi te stesso in ciò che gli altri dicono ed evolvi.

Giulia: Per me che frequento il gruppo da poco, questi incontri mi stanno regalando diverse sorprese. Dentro sto incontrando persone con una storia mentre da fuori alla storia non si pensa, sto incontrando persone con cui fa piacere comunicare e interrogarsi insieme e prima questo non mi sembrava possibile. Non mi aspettavo che parlare dentro il carcere potesse giovare alla conoscenza di me stessa.

La prof.ssa: Mi collego a ciò che ha appena detto Giulia riguardo l'umanità trovata qui dentro. Appena siamo arrivati qui per partecipare all'incontro ho notato i detenuti seduti alla mia destra e mi sono seduta, istintivamente, dal lato opposto. Ora, che abbiamo parlato e che vi ho guardati negli occhi, ora che ci siamo raccontati, mi sentirei di sedermi tra voi senza problemi

Nei minuti finali dell’incontro le insegnanti della scuola e alcuni studenti esprimono la propria gratitudine per essere stati coinvolti in interventi “intimi” e per avere avuto la possibilità di costruire un’idea di carcere e di funzione della pena più ricca e articolata.